Poco alla volta, il fascicolo aperto dalla procura di Roma sulla Global Sumud Flotilla comincia a prendere forma. Al primo esposto, presentato all’inizio del mese dal team legale della missione e che arriva fino al momento dell’intervento israeliano, si è aggiunto ieri quello firmato dall’avvocato Flavio Rossi Albertini per conto di Antonio La Piccirella, che pure faceva parte dell’equipaggio delle 45 navi che hanno provato a rompere il blocco davanti alla Striscia di Gaza.
Nelle diciassette pagine firmate da Rossi Albertini, il focus è su quello che è accaduto dopo lo stop alle imbarcazioni, cioè sul trattamento riservato agli attivisti nel porto di Ashdod e nella prigione di Ketziot.
Per il legale, quanto avvenuto da quelle parti si configura come «una completa violazione dei diritti umani» dal momento che «i militari, armati, hanno identificato gli attivisti, circa 300, poi li hanno privati di tutti gli effetti personali, dopodiché li hanno perquisiti imprimendo una gratuita violenza fisica, motivo per cui ad alcuni è stato rotto un braccio».
I soldati di Tel Aviv, inoltre, «hanno ammanettato gli attivisti» con le mani «dietro la schiena con delle fascette di plastica molto strette e hanno obbligato gli stessi a stare piegati, faccia a terra» per poi portarli «verso un piazzale assolato», «costringendo gli equipaggi a stare in ginocchio con i bagagli dietro le spalle e a guardare sempre in basso, impedendogli di muoversi e di parlare, dando dei colpi sulla testa a chi si rifiutava».
I militari, prosegue la denuncia, hanno anche «colto ogni minima occasione per umiliare gli attivisti», tra i quali c’era anche Greta Thunberg, che «è stata picchiata, trascinata a terra per i capelli, costretta a baciare la bandiera israeliana e poi avvolta nella stessa ed esibita come un trofeo, infliggendo gratuite e sadiche vessazioni».
All’arrivo in carcere, La Piccirella, che si è rifiutato di sottoscrivere un documento preparato dall’Ufficio immigrazione israeliano in cui sostanzialmente si accettava come lecito quanto subito, sarebbe stato portato insieme ad altre undici persone in una stanza con «solo sei letti» e «durante la prima notte è stato privato del sonno e sottoposto a pratiche di deprivazioni sensoriali».
Alle 3 della stessa notte, all’attivista sarebbe stato nuovamente proposto di firmare il documento, ma lui ha rifiutato perché farlo sarebbe stato «una legittimazione a posteriori dei gravi reati di cui era stato vittima». È così che, oltre al sequestro di persona, «nelle gratuite e dolorose vessazioni ed umiliazioni fisiche e morali» si configurerebbe il reato di tortura.
Da qui la richiesta ai pm di Roma di indagare per poi chiedere al ministero della Giustizia di procedere sulla base dell’articolo 8 del codice penale, quello che riguarda i delitti politici commessi all’estero. Che – e questo è un dettaglio per nulla scontato – possono essere puniti solo e soltanto dietro richiesta ministeriale.
Rossi Albertini, comunque, in aggiunta a questo evoca anche il secondo comma dell’articolo 40 del codice penale, secondo il quale «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».
Qui il dito è puntato contro il governo, soprattutto per il caso della nave Alpino della marina militare, che ha scortato la Flotilla fino a 150 miglia nautiche dalle coste di Gaza e poi si è ritirata, lasciando di fatto campo libero agli israeliani, che sono intervenuti in acque internazionali, dove ogni nave che batte bandiera italiana è da considerare a tutti gli effetti territorio italiano. Dunque la presa degli attivisti andrebbe considerata come un rapimento e la requisizione delle loro barche come una rapina a mano armata.
La questione giurisdizionale resta in ogni caso complessa: il diritto penale italiano si mischia con quello internazionali e con le convenzioni marittime: la definizione del caso – che il procuratore capo Francesco Lo Voi ha affidato al pool di magistrati che si occupa di terrorismo – non è tanto difficile sul piano fattuale, quanto su quello del diritto.
In sostanza il problema non è «cosa» indagare, ma come farlo. Ad ogni modo (e in aiuto), a strettissimo giro di posta, dal team legale della Flotilla arriveranno decine di integrazioni al primo esposto. Nei giorni scorsi gli attivisti hanno incontrato i vari avvocati coinvolti per mettere nero su bianco la loro versione dei fatti, dal momento del blitz israeliano fino al rimpatrio forzato.
Il fascicolo appare destinato a crescere di volume e l’indagine a salire di tono. È uno di quei casi, non molto consueti, in cui la questione giudiziaria si sovrappone alla perfezione alla questione politica.
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