Una recensione profonda e intelligente, cui non ci è sembrato necessario aggiungere parole nostre. Però, ci sembrano molto adatte queste:
Nessun uomo è un'Isola,
intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte della Terra.
Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare,
la Terra ne è diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una Magione amica o la tua stessa Casa.
Ogni morte d'uomo mi diminusce,
perchè io partecipo all'Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te.
John Donne
*****
PensieriParole È
tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e
il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di
bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto
sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo
Alla fine il film di Paolo Sorrentino ce l’ha fatta: ha vinto l’Oscar come miglior film straniero poche ore fa. Al di là delle sterili critiche ricevute in “patria” e del fatto che si possa riconoscere legittimità o meno ad una simile manifestazione, è indubbio che La Grande Bellezza, presentato a maggio 2013, è riuscito a far discutere molto come film di critica sociale ed esistenziale.
Non è solo questione di aver palesato
con immagini potenti, con un vero pugno nello stomaco, la decadenza dei
frequentatori dei salotti romani o italiani, e nemmeno di aver mostrato
quanto vuota sia l’esistenza di chi, annoiato dalla propria vita, si
rifugia in pietosi rituali festaioli. Il film rompe un muro di omertà
sui nostri rapporti sociali: infatti, pur in posti diversi da quelli
mostrati attraverso il protagonista Jep Gambardella (Toni Servillo)
ricco scrittore nichilista e rassegnato rispetto ai tempi, la sostanza è
la stessa. Un disagio presente e diffuso penetra le nostre vite,
“l’imbarazzo dello stare al mondo”, il “chiacchiericcio e il rumore”, lo
“squallore disgraziato”; sono tutti elementi presenti nelle nostre
vite, anche se a livelli e modi diversi.
Sensazioni, dentro e fuori da certi
rituali più o meno attribuibili al concetto di “mondanità”, che a
cascata, a partire da quella che nel film può esser definita borghesia
(pur non mostrando figure attuali come l’industriale, il banchiere o il
politico di professione) sono vissute da ogni essere umano.
“A 65 anni ho scoperto che non posso perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”, dice il protagonista.
“So’ belli i trenini che facciamo alle nostre feste, so’ belli perchè non vanno da nessuna parte.”
“Sono anni che mi chiedono
perchè non torno a scrivere un nuovo romanzo. Ma guarda sta’ gente, sta’
fauna, questa è la mia vita. E non è niente.”
L’omertà sui nostri rapporti sociali,
appunto: come passiamo il tempo, con quali finalità, quello che
definiamo “divertimento” e quindi gli spazi nei quali lo ricerchiamo (le
nostre feste, i nostri luoghi, le nostre vacanze dove magari ascoltiamo
gli stessi balli di gruppo del film), l’alienazione (gli autoscatti su
Facebook per sé e i propri “amici”) il regolare uso di sostanze, il
particolare ruolo della famiglia.
Il tutto in una gabbia di sofferenza e
dolore che resta sullo sfondo e poi all’improvviso riaffiora, con
l’illusione che esistano delle “vibrazioni” che facciano da termometro
rispetto a quel che proviamo mentre, comunque, non sappiamo spiegarci
cosa sta accadendo.
Jep Gambardella, pur facendo
consapevolmente parte di quel mondo snob circondato dalle più grandi
bellezze dello spazio/tempo mondiale, ideologie cristallizzate dall’arte,
nonostante si barcameni tra una casa di fianco al Colosseo, belle donne
e svaghi continui (tutti elementi che all’estero sono stati colti come
emblema dell’”italianità”) si interroga sul senso sia del bello che del
vivere. E lo fa da protagonista, in un continuo alternarsi di
depressione e smarrimento, euforia e apparente felicità, razionalità e
irrazionalità. La ricerca di un equilibrio impossibile, pur da
privilegiato in questa società. Lo stesso equilibrio che, nella scala
sociale, proviamo tutti a ricercare, anche in condizioni assolutamente
diverse e più sfavorevoli. Quel che accomuna Servillo ad ogni essere
umano è perciò la frustrazione nel non sapere come relazionarsi ad una
società che, pur avendo ancora qualcosa da offrire (l’arte, i pur
presenti legami sociali non ancora completamente dissolti, il cibo e il
sesso) risulta direzionata verso la barbarie, individuale e collettiva.
“Siamo tutti sull’orlo della
disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci
compagnia, pigliarci un po’ in giro… o no?”
Non a caso, a dicembre, avevamo scelto di proiettare
questo film: per discutere attorno alla necessità di un’uscita
collettiva da questa situazione, perché da soli non si arriva mai da
nessuna parte. Pur contando su anni di storia e di esperienza, cosa che
nelle immagini arriva in modo potente: Roma con i suoi 2 millenni di
storia, la Chiesa cattolica e poi, più di recente, i richiami alle varie
“anomalie italiane”; il partito (il PCI), il lungo ’68, il movimento
femminista. Pur stando nel cosiddetto Belpaese, dal clima mite e dal
buon cibo, anche qui non se ne esce: sofferenza per tutti, esattamente
ciò che accade altrove.
Prevalgono l’opportunismo, il moralismo,
la mercificazione e le inutili convenzioni sociali della rispettiva
classe dominante (o litigante, nel nostro caso), tutte mostrate con
molteplici e a vario titolo macabri esempi nel film.
Ogni cosiddetta patria, a partire anche
dalle condizioni più apparentemente umane, riesce negli attuali rapporti
sociali ad essere il fulcro dell’oppressione dell’uomo e a ridurlo a
mero figurante di se stesso e della propria vita, frustrato e alienato
rispetto ai suoi simili per non saper trovare un senso ad una vita che
non ce l’ha.
Un passaggio del film rende l’idea: un
uomo a notte fonda confida al protagonista, parlando della figlia che
lavora in un night club “ha sempre bisogno di soldi, ma che ci
farà. Se fosse per droga magari… così avremmo una passione in comune. Che
ti sembro un poveraccio Jep? Io quando parlo m’ascolto: oh, c’ho quasi
70 anni e so costretto a fa’ le sei di mattina tutti i giorni. 15 anni
fa ho lasciato perdere la cocaina e so’ passato all’eroina, pensa che
stronzo. Diventà eroinomane a 50 anni, ma se po’ essere più poveracci de
me?”.
E’ facile adattarsi a ciò, e allo stesso
tempo impossibile. La Grande Bellezza coglie perfettamente la ricerca
di salvezza che ogni comparsa del film incarna, come metafora della
nostra condizione di privazione di libertà e costanti necessità
materiali e immateriali.
Il chirurgo plastico beatificato dai
clienti come salvatore, il rapporto con la morte che si intreccia con le
nostre vite quando meno ce lo aspettiamo, lasciandoci spiazzati perché
abbiamo la presunzione di comprendere il funzionamento della società
quando non capiamo le leggi della natura; la ricerca, anche spirituale,
di una guida, un punto di riferimento (che nel film, chiaramente,
risulta non esserci nemmeno col cardinal Bellucci, il quale preferisce
discutere di ricette culinarie e darsi alle feste).
Tutto questo, per noi che scriviamo,
deve essere oggetto di profonda riflessione per chi ha un briciolo di
sensibilità ma, contemporaneamente, non far illudere che il superamento
degli attuali rapporti sociali possa di per sé risolvere qualcosa: se
anche dal mainstream culturale al potere escono messaggi di un certo
tipo, come quello del film e come molti altri, li dobbiamo sfruttare
politicamente, certo. Ma, come evidenzia La Grande Bellezza, duemila
anni di potere, storia e gestione dello spazio non si superano
facilmente e soggettivamente. Possiamo quindi accontentarci di qualche
incostante e sparuto sprazzo di bellezza in questa vita, a questo
prezzo, oppure (elemento che ovviamente non c’è nel film) spingere
facendo la nostra consapevole parte, sulla storia e le sue tendenze.
Certi che, per passare dal regno della continua necessità a quello della
libertà, serviranno diverse generazioni.
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