Sembra facile, invece è un’impresa straordinaria. Bisogna risalire il naviglio grande in secca, non farsi fuorviare dal ponte gobbo di Trezzano, scivolare lungo via Boccaccio senza deprimersi per il paesaggio di capannoni già scheggiati dalla crisi e poi entrare in una fabbrica favolosa. E crederci, per scoprire i segreti di una storia che di solito finisce male. Quasi sempre malissimo. Con il nuovo padrone straniero che rileva un’azienda affossata da una speculazione finanziaria per spostare la produzione in Polonia, con 240 lavoratori anestetizzati da due anni di cassa integrazione e altri 80 adescati per far finta di lavorare e intascare la buona uscita mentre la fabbrica viene spolpata dei macchinari. Dopo tre anni di lotta, tavoli delle trattative, arrampicate sui tetti, scioperi, picchetti, binari occupati e notti insonni. Tutto inutile. La Maflow, fabbrica di condizionatori per automobili, nel 2007 era una multinazionale a capitale italiano con 23 stabilimenti nel mondo. Già sentita altre volte, vero? Ma questa è tutta un’altra storia.
Perché un giorno, un anno fa, alcuni
lavoratori hanno deciso di giocare alla sovversione. Sul serio. Si
sono ribellati, la cosa più difficile. Hanno preso gli spazi
abbandonati e hanno conquistato una specie di città tutta da
reinventare, 30 mila metri quadrati di cui metà al coperto,
nell’ordine di tre campi da calcio (di proprietà dell’Unicredit).
L’hanno chiamata Ri-Maflow, col suffisso magico. “Ri”, come riuso,
riciclo, riappropriazione e, perché no, “Ri” come rivoluzione.
Prendendosi sul serio ma con ironia, perché quando si cena tutti
insieme per solidarizzare col portafoglio c’è anche una bella
(ri)passata di pomodoro che sobbolle in pentola. La Ri-Maflow ormai
è più di una fabbrica, è un esperimento unico nel suo genere. Tutto
da studiare, e ci sono già ricercatori universitari che si
aggirano nei capannoni trasformati per capire fino a che punto si
può arrivare quando si raccolgono le energie per sovvertire le
regole auree del capitalismo. Ma il sogno di immaginare una unità
produttiva autogestita sul modello delle fabbriche recuperate
argentine quasi non basta più, perché l’idea di riappropriarsi del
lavoro per creare reddito è stata quasi travolta dal bisogno
fisiologico di ricreare una nuova socialità. Non si vive di sola
fatica. Però sono operai e hanno il mito della produzione, per loro
la vera sfida è avviare una attività di produzione. Ci sono vicini,
vicinissimi. Ritirano oggetti tecnologici arrivati alla fine
della loro innaturale vita e li riparano, li smontano, li
ri-utilizzano e li ri-vendono, è l’ecologia che da teoria si fa
sostanza, l’università dell’aggiustaggio dove non si fanno chiacchiere
accademiche. Frigoriferi, lavastoviglie, lavatrici,
computer, mixer, radio, aggeggi vari recuperati a chilometro
zero.
Ma qui, dentro la Ri-Maflow, per chi ci
crede, c’è dell’altro. Manca solo Willy Wonka, il mago della fabbrica
di cioccolato, per farsi guidare nel gigantesco baule di idee
realizzate o che stanno per germogliare. Progetti ambiziosi che
ancora non si possono rivelare, cianfrusaglie, un’altra Expo, una
festicciola di carnevale. C’è spazio per tutti, se gli operai che
si sono imbarcati in questa avventura — una ventina sono soci
lavoratori — avranno la forza di tirare avanti. C’è qualcuno
disposto ad aiutarli, e ad aiutarsi? Perché un’idea ne chiama
un’altra. Bisogna sognare, ma anche restare con i piedi per terra,
e per quello c’è la riunione operativa del martedì. Senza capi, né
portavoce. Ci sono solo responsabili dei vari progetti. Tanti,
forse troppi (i progetti). Prove tecniche di armonia per quasi
disoccupati, il bene più prezioso e difficile da preservare in
condizioni difficili come queste: per ora chi ci sta intasca una
paga — se così si può chiamare — di circa 300 euro al mese.
Volontariato. Il risultato è la confusione più straordinaria che
si sia mai vista in un luogo metalmeccanico dove si producevano
tubi di gomma per rinfrescare l’abitacolo di migliaia di Bmw.
Automobile, roba vecchia.
Sculture di legno piazzate nell’atrio, solo un diversivo da art-studio perché due falegnami avevano bisogno di un nuovo spazio; a Milano, dove una cosa così se la sognano, lo chiamerebbero co-working, qui invece sembra la rivincita della surrealtà, con fotogrammi rubati a un film di Tarantino: laggiù c’è la stanza spoglia occupata da due tizi cacciati da chissà dove che si occupano di recupero crediti (con le buone maniere, viene da pensare). Di fianco giochi per bambini e maschere di carnevale, spazio per il baratto, poi il bar Abba in memoria di Abdul Guibre, il ragazzo italiano originario del Burkina Faso ucciso a sprangate sei anni fa a Milano. Una sala prove insonorizzata e anche una web tv gestita da due senegalesi, operai agitatori di un sindacato di base. Altri due neri alla Ri-Maflow ci abitano, al piano di sopra, ci abitavano anche prima che gli operai si mettessero in testa di riprendersi il desiderio del lavoro e poi sono rimasti incastrati al vertice, nel comitato di gestione. Ogni capannone apre uno scenario diverso, l’incanto della camera dei giochi è nell’enorme mercatino dell’usato che si nasconde sotto le coperte in attesa di ogni sabato e domenica, sono tremila metri quadrati al coperto a disposizione di cento espositori. Il mercato libero, una calamita per appassionati e feticisti dell’artigianato e del collezionismo. Altro capannone, altra storia. È ancora un mercato — il FuoriMercato — il venerdì e il sabato mattina, trionfo del biologico, la nuova casa di un Gruppo di acquisto solidale in combutta con i produttori del parco agricolo sud Milano (le cibarie si acquistano anche su www.fuorimercato.com).
Sculture di legno piazzate nell’atrio, solo un diversivo da art-studio perché due falegnami avevano bisogno di un nuovo spazio; a Milano, dove una cosa così se la sognano, lo chiamerebbero co-working, qui invece sembra la rivincita della surrealtà, con fotogrammi rubati a un film di Tarantino: laggiù c’è la stanza spoglia occupata da due tizi cacciati da chissà dove che si occupano di recupero crediti (con le buone maniere, viene da pensare). Di fianco giochi per bambini e maschere di carnevale, spazio per il baratto, poi il bar Abba in memoria di Abdul Guibre, il ragazzo italiano originario del Burkina Faso ucciso a sprangate sei anni fa a Milano. Una sala prove insonorizzata e anche una web tv gestita da due senegalesi, operai agitatori di un sindacato di base. Altri due neri alla Ri-Maflow ci abitano, al piano di sopra, ci abitavano anche prima che gli operai si mettessero in testa di riprendersi il desiderio del lavoro e poi sono rimasti incastrati al vertice, nel comitato di gestione. Ogni capannone apre uno scenario diverso, l’incanto della camera dei giochi è nell’enorme mercatino dell’usato che si nasconde sotto le coperte in attesa di ogni sabato e domenica, sono tremila metri quadrati al coperto a disposizione di cento espositori. Il mercato libero, una calamita per appassionati e feticisti dell’artigianato e del collezionismo. Altro capannone, altra storia. È ancora un mercato — il FuoriMercato — il venerdì e il sabato mattina, trionfo del biologico, la nuova casa di un Gruppo di acquisto solidale in combutta con i produttori del parco agricolo sud Milano (le cibarie si acquistano anche su www.fuorimercato.com).
Una gabbia vuota ogni quindici giorni
si riempie di quintali di arance provenienti da Rosarno, Calabria,
dove quattro anni fa centinaia di lavoratori stranieri accampati
come bestie si ribellarono dopo essere stati “sparati” dalla
malavita locale; sono gli stessi agrumi in vendita senza scandalo
sugli scaffali dei supermercati della grande distribuzione. Forse
è questo il succo dell’avventura Ri-Maflow, il ribaltamento di una
prospettiva che nella realtà non lascia scampo: qui, in uno spazio
riconquistato a un padrone speculatore, e di proprietà di una
banca, si vendono arance di Rosarno raccolte dai braccianti, ma in
regola e pagati con un giusto salario. Spremere gli agrumi, non gli
esseri umani.
Tutte queste attività, i mercatini, le feste, i concerti, la sala prove, il teatro, la linea di produzione per il recupero di elettrodomestici, il bar, si autofinanziano formando una sorta di holding solidale che sta offrendo un’altra possibilità, anche di reddito, a centinaia di persone che usufruiscono degli spazi (soci fondatori a parte). Serve altro?
Tutte queste attività, i mercatini, le feste, i concerti, la sala prove, il teatro, la linea di produzione per il recupero di elettrodomestici, il bar, si autofinanziano formando una sorta di holding solidale che sta offrendo un’altra possibilità, anche di reddito, a centinaia di persone che usufruiscono degli spazi (soci fondatori a parte). Serve altro?
Gli operai, però, non ce l’hanno ancora
fatta. La sostenibilità economica del progetto, e delle vite
sovraccariche di impegni per 300 euro al mese, è sempre in forse.
Non è facile conciliare il tempo dedicato all’autogestione con
l’urgenza di rimediare il denaro per vivere. Molti lavoratori
ricevono briciole di ammortizzatori sociali, ma la cassa
integrazione è agli sgoccioli. Dopo un anno la corsa a ostacoli
è appena cominciata e le modalità per riprogettarsi in grande sono
tutte da inventare. Bisogna ottenere le autorizzazioni, trattare
con l’Asl, cogliere l’opportunità di bandi europei o regionali,
intralci burocratici necessari per sopravvivere. E poi lottare per
un’altra politica del lavoro, provare a fare della Ri-Maflow il
modello vincente per le altre vertenze che finiscono con il padrone
che prende i soldi e scappa. Si potrebbe immaginare che i macchinari
dell’azienda che licenzia e delocalizza rimangano ai lavoratori.
Solo così sarebbe possibile sperimentare l’autogestione
produttiva come nelle fabbriche argentine, perché agli operai
della Ri-Maflow sono rimasti solo i capannoni. Ci vorrebbe una sorta
di diritto di prelazione per i lavoratori depredati del lavoro. Te
ne vai? Sei obbligato a lasciare qui le macchine. Si potrebbe
chiedere un parere a Federica Guidi, il ministro dello Sviluppo
economico. Con calma, per non rovinarsi la festa. Oggi è il primo
compleanno della nuova impresa. Si festeggia con una giornata di
bagordi, dalla mattina a mezzanotte. Le iniziative sono tante. Per
autogestirsi almeno la visione del programma chiunque può visitare
il sito rimaflow.it. Dopo tanta sostanza, un’incursione nel virtuale.
In bocca al lupo a tutti quelli che hanno dato vita e credono in questo progetto, gente temeraria, ma avanti.
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