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01/07/2014

Nella battaglia di Ypres, Renzi vittima collaterale

Fare un vertice Ue a Ypres, nel centenario dell’attentato di Gavrilo Princip a Sarajevo, significa volere, e di forza, evocare il ritorno degli spettri della storia. Anche il mainstream giornalistico si è esercitato a stuzzicare questi spettri, per mostrare il fatto che oggi sono stati domati, ma senza risultati letterari di rilievo. Le metafore, per rendere significato, vanno infatti sviluppate leggendo la trama che contengono non evocando qualche flash improvviso della memoria collettiva. Ypres è stata infatti teatro di ben quattro battaglie durante la prima guerra mondiale di cui una, la terza, ha una stima di oltre 300.000 morti. Fu il vero teatro della guerra chimica nel primo conflitto mondiale, di lì il gas a scopi bellici fu chiamato iprite, ma anche di altri inferni inenarrabili. Come quello di una rete metropolitana scavata tutta sotto le campagne di Ypres che, una volta stivata di dinamite, fu fatta esplodere sotto i piedi dell’esercito tedesco mentre stava avanzando. Le stime parlano di diecimila morti in un solo colpo. Sono note le ribellioni dei soldati francesi su quel fronte, l’occupazione di snodi ferroviari per tornare a casa. La loro rivolta fu domata da Pétain, il governatore della repubblica collaborazionista di Vichy nella guerra successiva. Un ufficiale inglese disse che la ferocia di quella guerra “non poteva essere immaginata” a casa. E non si trattava di un’epoca il cui confronto fisico mancava nei processi di immaginazione.

Il vertice Ue nella cittadina belga è servito quindi a lavorare su un simbolico, dopo la cerimonia sui 70 anni dallo sbarco in Normandia composto per lanciare un preciso messaggio: nell’Europa della pacificazione dalle guerre ci si unifica per un futuro di crescita e prosperità. Un messaggio più da anni ’50 che da secondo decennio del 2000. In verità, infatti, il vertice di Ypres è preda di un altro simbolismo. Quello che vuole che i vertici siano snodi di un altro genere di guerra, quella finanziaria, che crea distruzioni considerevoli quanto quelle sul campo. Basta dare uno sguardo allo storico del Pil italiano dall’unità ad oggi. Ci sono similitudini con il Pil del ’14, l’altro quello del ‘900, e record di recessioni consecutive o ravvicinate raggiunti nemmeno nei periodi di turbolenza bellica. Ma deve essere il destino di Ypres: allora era uno snodo verso l’accesso al mare, e quindi l’attacco all’Inghilterra via Manica, oppure, in ottica alleata, per la controffensiva che avrebbe potuto portare direttamente in Germania. Oggi si è rivelato uno snodo strategico per l’attacco all’Inghilterra, e al suo dedalo di interessi, oppure alla Germania maggiormente legata, perché capace di esercitare egemonia, alla governance Ue.

Gli effetti della guerra finanziaria, che ha trovato la sua ultima tappa a Ypres, certo sono meno tragicamente spettacolari di quelli di diecimila soldati che saltano, in un colpo solo, grazie alla dinamite nascosta nei tunnel. Ma di sicuro aprono a nuove turbolenze, non solo digitali, con nuovi effetti diffusi e concreti sulle popolazioni europee. La battaglia di Ypres del 2014 sancisce infatti un principio importante: il presidente della commissione europea viene eletto a maggioranza politica, quella emersa dal parlamento di Strasburgo, senza il principio dell’accordo tra stati. Negli anni precedenti era ormai emerso, con maggior chiarezza dopo la crisi Lehman, che l’edificio della governance europea mostrava ormai una crepa principale. Quella tra le esigenze della governance multilivello - quella che si esercita tra moneta, concorrenza e regolazione economica neoliberista - e gli accordi interstatali dove emergevano anche le esigenze del singolo stato nazionale. E, si badi bene, tra queste esigenze non c’è mai stato solo un aspetto di difesa corporativa ma anche di concretezza dei diritti. Non a caso la Germania mantiene vivo il rito del primato della corte costituzionale di Karlsruhe come decisore in ultima istanza sulla legittimità degli accordi europei mentre all’Italia è toccato votare il pareggio di bilancio in costituzione, vero attacco alla giugulare della carta del ’48.

Quindi che l’elezione di Juncker sia il ripristino della sovranità popolare continentale, tramite il voto del parlamento europeo, può solo crederlo qualcuno in volenteroso stato di allucinazione. E non solo perché le percentuali di non voto al parlamento di Strasburgo toccano quasi il 60 per cento, perché la strutturazione di partiti e sindacati continentali è debole o perché la cosiddetta società civile in Europa è un gigantesco pulviscolo di associazioni, in concorrenza tra loro, al massimo alla ricerca di una nicchia per un qualche finanziamento. Ma soprattutto perché il principio del voto a maggioranza, se replicato dopo l’elezione di Juncker, viene esercitato per uno scopo ben preciso: sciogliere il nodo gordiano tra interessi nazionali, specie quando in questi si annidano i diritti concreti universali contenuti nelle costituzioni (welfare, istruzione, beni comuni), e governance europea a favore di quest’ultima. E qui, visto che questa battaglia di Ypres l’ha persa l’Inghilterra, che non è riuscita a fermare Juncker, ci si deve fermare su un dettaglio non da poco.

Mettendo tra parentesi il ruolo speciale che il neoliberismo britannico gioca in Europa. Il principio delle decisioni a maggioranza, se replicato in Europa, servirà a smantellare non solo i veti corporativi ma anche quelli che contengono corposi diritti a livello nazionale. Certo, in Inghilterra si è aperto un dibattito tutto incentrato sul futuro Ue della Gran Bretagna. Sul ruolo dell’industria, che nel continente esporta, della finanza (che in UK produce metà del Pil) e sulle politiche della Banca di Inghilterra in rapporto alla Bce. Ma la sconfitta di Cameron, e il passaggio del principio di decisione Ue a maggioranza, porta una conseguenza storica e un effetto collaterale.

La conseguenza storica è semplice da osservare: la governance europea, con tutti i suoi livelli, ora colma i deficit di legittimazione con un più stretto legame con il parlamento europeo. La governance ha così una legittimazione più politica, il parlamento una maggiore integrazione con la commissione. Gli interessi sovranazionali che passano a maggioranza, rispetto alle esigenze e ai veti dei singoli stati, se mantengono questa forma decisionale non rappresenteranno quindi un cambiamento da poco.

L’effetto, la vittima collaterale si chiama Matteo Renzi. L’attuale presidente del consiglio già dalle primarie aveva insistito con la revisione dei parametri di stabilità. Per dare ossigeno alle politiche di bilancio, rendendole meno restrittive, e per trovare spazio per investimenti. Non ha ottenuto assolutamente nulla: nonostante sia stato lanciato, alla vigilia del vertice, dal Financial Times come campione del rigore anti-Merkel si è presto accodato ai desiderata della Germania. Non tanto, e non solo, sul nome di Junker ma proprio sulle politiche di austerità. Potenza delle necessità del capitale europeo. Dalle stesse parole di Del Rio si capisce che Renzi ha ottenuto solo uno sconto sul cofinanziamento, da stornare, sui fondi europei destinati all’Italia. Non molto, anche se sono 7 miliardi, specie se si considera che il rinvio del pareggio di bilancio, chiesto da Padoan, è stato bocciato dalla Ue. Basterebbe questo dettaglio per capire che Renzi non ha ottenuto nulla: non ti danno flessibilità nell’interpretazione dei parametri Ue se ti bocciano la richiesta di rinvio del pareggio di bilancio. Non a caso il ministro Del Rio, subito dopo la sconfitta di Renzi a Ypres (o meglio la sua caduta come effetto collaterale della sconfitta di Cameron) ha cominciato a chiedere Eurobond per socializzare il debito europeo e far spendere meno all’Italia in termini di interessi. Ma giusto per trovare un qualche argomento, per rinviare al futuro il problema di una gabbia del rigore che l’Italia non può combattere quando vuole e non vuole combattere quando può. Ma la Germania, soprattutto con i suoi istituti di credito, è nettamente contraria a quest’ipotesi.

Non resta quindi, a Renzi, che ripetere il mantra delle riforme “per ottenere flessibilità”. Per uno che era partito baldanzosamente, già dalla Leopolda, per ottenere flessibilità, in cambio di riforme, siamo all’esatto contrario di quanto desiderato. Una sconfitta che non si trova però nel mainstream televisivo ridotto a istituto Luce versione digitale come nemmeno ai tempi del berlusconismo più rampante (che contava comunque su qualche rete televisiva di opposizione). Oppure che la si intuisce da qualche corsivo di giornale, giusto se ci si arma della pazienza di un cremlinologo, di quelli che dovevano intuire le politiche sovietiche da apparentemente impercettibili spostamenti rituali. Il Def, documento di programmazione economico-finanziaria, di questa primavera anticipava un po’ questa sconfitta. Ma Ypres la ratifica.

Ci aspetta un altro autunno di massacro sociale, di manovre pesanti e di privatizzazioni. Specie se continua il bacio della morte tra media, opinione pubblica e Matteo Renzi. Il seguito dell’episodio di guerra finanziaria giocatosi ad Ypres non sarà infatti indolore. Sarebbe però salutare giocarselo politicamente con una convinzione: è caduto il mito dello “sbattere i pugni a Bruxelles” per ottenere qualcosa, qualsiasi straccio di cosa da raccontare alla propria opinione pubblica. Nel momento in cui viene sconfitta la Gran Bretagna, cioè l’elemento che più ha sbattuto i pugni sul tavolo e fatta valere la propria specificità da sempre, è l’idea stessa del “paese che si fa valere” che è ridicola. Perché, a livello di governo Ue, oggi il principio del governo a maggioranza fa evaporare quel diritto di veto che altro non era che la concretizzazione dello sbattere i pugni sul tavolo. Non a caso quindi Del Rio ha aperto subito sulla questione degli Eurobond: perché sa che sui margini al patto di stabilità continentale, sul fiscal compact e sugli investimenti non c’è spazio. Quindi il Renzi “che sbatterà i pugni sul tavolo in Europa” è una rappresentazione ottima per le tavolate estive nella natia Rignano, per i sogni dei Migliore di turno o per quelli degli elettori suicidi che l’hanno votato.

La verità è che questo è diventato un paese che ha tutti gli svantaggi della sovranità ceduta, compreso il trasferimento coloniale delle ricchezze, e nessuno dei vantaggi di far parte di un dispositivo continentale di governo. Ed è pure abitato da apprendisti stregoni sia dell’uscita dall’euro che della permanenza in una eurozona vista con lisergico distacco dai processi reali. Ma finché, come per le battaglie di Ypres combattute sul campo, non ci si può immaginare portata e devastazioni dei conflitti finanziari, tutto scorre. Fino al crinale storico successivo.

Per Senza Soste, nique la police

30 giugno 2014

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