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13/10/2014

Sangue sul “nuovo Yemen”


di Giorgia Grifoni

Le premesse per una nuovo corso per lo Yemen parevano esserci tutte. A seguito dell’ingresso delle milizie Houthi a Sana’a sembrava si fossero create le condizioni per la costruzione di un Governo di mediazione che riuscisse a tenere insieme le diverse anime della galassia politica yemenita. Il mancato colpo di Stato da parte delle milizie del nord, nonostante la loro capacità di mobilitazione della popolazione, l’accordo stilato sotto la supervisione dell’inviato ONU Jamal Benomar e la promessa di reintroduzione dei sussidi sul carburante avrebbero, infatti, potuto essere i punti di partenza di un processo di risoluzione della fase di instabilità e conflitto che dura da circa tre anni nel Paese. Così, però, non è stato.

La nomina di Ahmed Awad Ben Mubarak come primo ministro è stata percepita dai ribelli zaidi come un’ingerenza di potenze straniere, Stati Uniti e Arabia Saudita in primis, nelle questioni interne e, per questo, rifiutata. La minaccia di nuove proteste di piazza ha indotto Mubarak a rifiutare l’incarico di formare un nuovo governo di unità nazionale e, solo allora, le manifestazioni sono state annullate. Parallelamente, però, in una delle piazze dove erano previsti i presidi Houthi un attentato suicida ha provocato la morte di più di 40 persone.

La situazione è, quindi, ben lungi dall’essere risolta dati gli interessi confliggenti dei protagonisti interni e internazionali di questa questione. Per capire la realtà yemenita bisogna, infatti, tenere presente quanto diverse sono le anime interne e quanto questo piccolo e poverissimo Paese possa risultare strategico per le dinamiche di area.

A seguito della caduta dell’ex primo ministro Ali Abd Allah Saleh nel 2012 e alla guerra civile che per circa due anni ha insanguinato il Paese, tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, le diverse fazioni si erano ritrovate a confrontarsi sul futuro del Paese attraverso la Conferenza Nazionale del Dialogo. Durante la Conferenza era stato stilato un piano per dar corso alla trasformazione dello Yemen in un sistema federale multi-regionale attraverso una riforma profonda della Costituzione yemenita. Nell’intenzione dei soggetti coinvolti, questo avrebbe consentito la creazione delle premesse necessarie per un governo di unità nazionale rispettoso delle necessità dei diversi gruppi etnico-religiosi. La violazione quasi immediata del cessate il fuoco e l’inconcludenza delle successive elezioni hanno, però, mostrato tutte le debolezze del progetto.

Qualsiasi progetto politico-istituzionale, per poter essere messo in atto, ha bisogno di gettare le basi per un diverso sistema economico. Lo Yemen è, infatti un Paese dove le risorse naturali sono geograficamente collocate in maniera asimmetrica tra il nord e il sud, un Paese dove circa il 50% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, una nazione che basa la sua economia quasi esclusivamente sul petrolio e che manca di qualsivoglia politica redistributiva. Questo fa si che le lacerazioni interne alla società siano sempre più profonde e che movimenti di opposizione al governo centrale, per quanto non sempre portatori di un diverso modello sociale, acquisiscano spazio e forza aggregativa. Il silenzio internazionale su queste ultime questioni e le ingerenze straniere completano solamente il quadro.

Se dal punto di vista interno esistono fratture etniche e geografiche alle quali, nel tempo, si sono sovrapposte divisioni politiche ed economiche, a livello internazionale il ruolo strategico dello Yemen attiene alla sfera di difesa strategica del Golfo di Aden e dell’accesso al Mar Rosso oltre che alla “guerra fredda” mediorientale tra Arabia Saudita e Iran. La regione nord dello Yemen, a maggioranza sciita (zaidi, nel caso degli Houthi) condivide, infatti, un lungo confine con il Regno Saudita e la sua stabilità viene considera prioritaria dal Governo di Riyad. Per quanto non siano provati legami preferenziali tra la minoranza sciita e Teheran, l’Arabia Saudita teme che una vittoria degli Houthi al di là del confine possa fungere da esempio e da stimolo per la minoranza all’interno del Regno.

Le dinamiche interne yemenite risultano, dunque, centrali per la sicurezza dell’area e, di conseguenza, continuamente monitorate anche da soggetti esterni all’area come gli Stati Uniti. La presenza massiva della declinazione locale di Al-Qaeda (AQAP, Al-Qaeda in the Arabian Peninsula) nel sud del Paese ha preoccupato Washington tanto da indurlo a investire molto nel monitoraggio dei cieli yemeniti con droni e sistemi di difesa all’avanguardia. La conseguenza delle strategie di controllo e repressione dei gruppi ribelli non ha, però, sortito l’effetto voluto ed il radicamento dei gruppi del sud non sembra essere diminuito. Per quanto le ingerenze internazionali, da sole, non possano spiegare la situazione di totale instabilità in cui si trova lo Yemen, queste hanno un forte impatto sull’alternanza al potere centrale e sulla capacità dei governi di cambiare il corso degli eventi interni. Per poter parlare veramente di un “nuovo Yemen” il cambiamento dovrà, dunque, riguardare anche quest’ultimo aspetto.

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