di Sonia Grieco
Sono stati cacciati dalla piazza nel 2011, sono rimasti in disparte (alcuni all’estero) ad aspettare tempi propizi e alla fine, come spesso accade, sono
tornati, intenzionati a riprendersi il potere. Sono gli uomini del
vecchio regime tunisino (quello guidato per oltre vent’anni dall’ex
presidente in esilio Ben Ali, condannato all’ergastolo in contumacia)
che adesso partecipano alla corsa elettorale per le politiche del 26
ottobre e per le presidenziali del 23 novembre.
L’87enne Beji Caid Essebsi, presidente del Parlamento negli anni Novanta e premier ad interim dopo le rivolte del 2011; l’ex ministro dei Trasporti, Abderrahim Zouari, arrestato per corruzione e poi rilasciato; Kamel Morjane,
un tempo responsabile del dicastero degli Esteri, che ha chiesto scusa
per “avere accettato di servire” sotto Ben Ali; l’ex ministro della
Sanità, Mondher Zenaidi, rientrato dall’estero un mese fa, in tempo per la campagna elettorale.
Adesso gli “azlem” (membri del circolo ristretto di Ben Ali) prendono
le distanze dal loro stesso passato e indossano gli abiti della
democrazia e della laicità contro le formazioni di stampo islamico.
E questo proprio grazie al partito islamico Ennadha salito al potere
dopo la rivolta, che ha scelto la via della riconciliazione e ha
respinto, d’accordo con il fronte laico, un progetto di legge che
avrebbe impedito queste candidature. Ennadha è comunque convinto di
replicare il risultato delle legislative di tre anni fa (37%), che lo
portarono a dominare l’Assemblea nazionale (un Parlamento transitorio), e
anche molti analisti ritengono che sia il favorito.
Tuttavia, nella corsa elettorale
gli ex uomini di Ben Ali sono rivali temibili, perché dopo quattro anni
dalla cosiddetta Rivoluzione dei Gelsomini in Tunisia c’è chi pensa che
“si stava meglio quando si stava peggio” e la questione sicurezza,
legata alla minaccia di infiltrazioni jihadiste dalla Libia e
dall’Algeria, è diventata centrale. Sono decine le persone
finite in manette con accuse di terrorismo, mentre il Paese è nella
morsa della crisi economica, con alti tassi di disoccupazione e un
aumento dell’emigrazione, soprattutto tra i giovani. Per non parlare
della corruzione diffusa, della mancanza di servizi e, soprattutto nelle
zone più interne, dell’inefficienza e dell’incapacità
dell’amministrazione statale. E, dall’altro canto, dell’efficiente
repressione nei confronti del dissenso.
Il rinnovo delle concessioni minerarie (la Tunisia ha le più grandi miniere al mondo di fosfati, principale risorsa del Paese)
e gli accordi con l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale
hanno messo la nazione che ha dato il via alle primavere arabe sulla
strada delle libertà economiche più che di quelle politiche. Le
forze di sicurezza, che nel 2011 sparavano sulla folla, continuano a
torturare e vessare chi dissente, sicure di un’impunità che è stata
concessa anche agli uomini dell’ex regime.
Così i tunisini domenica sono
chiamati a scegliere tra vecchie conoscenze, candidate nella coalizione
laica capeggiata dal partito Nida Tunis (Call for Tunisia) fondato da
Beji Caid Essebsi, e il movimento Ennahda. Ci sono
1.230 liste elettorali per le Parlamentari e 27 candidati alla
presidenza, ma è tra queste due formazioni che si giocherà la partita. Laici contro islamici, ha detto qualcuno, parlando di una spaccatura che si sta allargando nel Paese.
Non sarebbe giusto dire che la Tunisia sia ripiombata nella dittatura o nel caos.
La lunga transizione verso la democrazia che si sta vivendo, o che si
spera inizi all’indomani del voto, è stata meno cruenta che in Egitto o
in Libia e sono stati aperti degli spiragli, anche se il vero
cambiamento ancora non c’è stato. Lo scorso gennaio è stata ratificata una Costituzione considerata un esempio di laicità tra quelle del mondo arabo
e anche la fine del governo di Ennahda, accusato di incapacità sul
fronte delle politiche economiche e di indulgenza con le fazioni
islamiche più radicali, non è stata violenta. Però, il suo mandato è
stato bagnato dal sangue di due esponenti dell’opposizione uccisi da
militanti islamisti: Chokri Belaid (assassinato a febbraio del 2012) e
Mohammed al-Brahmi (ucciso il 25 luglio 2013). Inoltre, la commissione
elettorale ha escluso dalla corsa alcuni volti noti del vecchio regime.
Tuttavia, il voto, considerato una pietra miliare nella storia recente della Tunisia, avviene tra il disincanto di una generazione scesa in piazza a costo della propria vita per liberarsi di un apparato liberticida e adesso costretta alla disoccupazione o all’emigrazione, non soltanto per lavoro. Le sirene dell’islam radicale hanno lusingato migliaia di tunisini: se ne contano circa 4mila in Siria nelle file dei jihadisti, la comunità di stranieri più numerosa. Una generazione che si sente esclusa nel proprio Paese e che non è neanche riuscita a entrare nell’agone politico.
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