L’enciclica “Laudato si’” è essenzialmente un documento sul mondo,
sulla “città degli uomini”: non per niente nelle parti più squisitamente
politiche scarne o inesistenti sono i rinvii alle Scritture o alla
tradizionale dottrina sociale
della Chiesa, ribadendosi, viceversa, l’apertura al “dialogo col
pensiero filosofico” (proposizione n. 63) e, aggiungo io, poiché
traspare inequivocabilmente dal testo, con le acquisizioni scientifiche.
Un testo che indubbiamente si colloca in antitesi non solo al
neoliberismo, ma, in qualche modo, al primato, oggi in auge,
dell’economia, dell’homo oeconomicus, con una forte accentuazione antiutilitarista: “si potrebbe parlare della priorità dell’essere rispetto all’esser utili” (prop. n. 69).
L’intreccio
necessitato, la quasi identificazione tra crisi ecologica, di cui si
riscontrano “sintomi di un punto di rottura” (prop. n. 61), e
crisi sociale costituiscono il filo rosso che innerva coerentemente,
almeno nella sua fase analitica, tutto il discorso. Il punto di rottura
per quel che concerne l’“ecosistema umano” può far sì che “le nuove forme di potere derivate dal paradigma tecno-economico
finiscano per distruggere non solo la politica ma anche la libertà e la
giustizia” (n. 53). Tanto che “dobbiamo cambiare il modello di sviluppo
globale” (prop. n.194), consapevoli altresì del fatto che “il
salvataggio ad ogni costo delle banche […] riafferma un dominio assoluto
della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi,
dopo una lunga, dolorosa, apparente cura” (prop. n. 189).
Asserzioni forti, drastiche, come quella espressa, tra le altre, al n. 108: “non si può pensare di sostenere un
altro paradigma culturale e servirsi della tecnica come mero strumento,
perché oggi il paradigma tecnocratico è diventato così dominante, che è
molto difficile prescindere dalle
sue risorse senza essere dominati dalla sua logica”. E’ il
riconoscimento della non-neutralità della scienza e della tecnica (n.
114), e quindi delle forze produttive e del loro sviluppo: punto
misconosciuto da certo marxismo volgare che viceversa si vorrebbe “ortodosso”.
Ma
prima di procedere su questo terreno, va sottolineata altresì la valenza
rivoluzionaria, per quel che capisco, sul terreno teologico, della
“detronizzazione dell’uomo”, finora concepito (nei due millenni che
abbiamo alle spalle) come scopo ultimo della creazione (“l’uomo creato a
immagine e somiglianza di Dio”) e quindi padrone destinato a dominare
la natura, a lui sottomessa. Si prende atto che è intervenuta, quasi una
nuova colpa originaria (benché incardinata nella storia), una rottura
del patto tra l’umanità e Dio. I cenni al riguardo sono ricorrenti,
volutamente ribaditi, in parte già presenti nella catechesi (vedi anche
prop. n. 61 exeunte). Il non volersi riconoscere come “creature
limitate […] ha distorto anche la natura del mandato di soggiogare la
terra [ciò che ha trasformato] la relazione originariamente armonica tra
essere umano e natura in un conflitto” (prop. n. 66). (Qualcuno
potrebbe ovviamente rilevare che questa visione, collocata nella notte
dei tempi, è alquanto unilaterale, se non mitizzata: di per sé la natura
è madre, ma sa essere anche matrigna).
Dall’analisi
e dalla vibrante denuncia dello stato del pianeta e della “società di
mercato” (privatizzazioni, sottrazione di beni comuni a vantaggio del
profitto) discende una inequivoca denuncia del neoliberismo mercatista,
come si è detto, e del ruolo delle multinazionali. E infine una
presa di posizione radicale che si spinge fin dove neppure il pensiero
della sinistra antagonista osa in genere avventurarsi: una ridefinizione
dell’idea di progresso (soprattutto proposizione n. 46) sganciata dal
mito tecnologico, fin quasi a sposare le teorie della decrescita (prop.
nn. 191-193-194), non senza una stoccata polemica a certo ambientalismo
“compatibilista” (prop. 59 e 197, penultimo capoverso). “L’ambiente
è uno di quei beni che i meccanismi di mercato non sono in grado di
difendere o di promuovere adeguatamente” (n.190).
Tuttavia,
quando si scende sul terreno degli obiettivi da perseguire, il
carattere politico, oserei dire laico, del testo, traspare altresì, ma
stavolta in una valenza negativa, da qualche aporia: come quella che
immotivatamente avvalora, “sacralizza” una tendenza in atto (ma non
credo nell’universo mondo) alla proprietà della casa (n. 152), il
discorso valoriale cede il passo o, meglio, sussume il “realismo” della
attualità italiana (occidentale?): l’abitare non si configurerebbe,
anche nella prospettiva della lotta alla povertà, preferibilmente tra i
“beni comuni”, sottratto dunque alla spirale speculativa della rendita
fondiaria?
Le
due crisi parallele, climatica e sociale, vengono tradotte sul piano
operativo nella “cura della natura e dei poveri” (n. 237): un binomio, a
mio avviso, problematico, perché, pur scontando l’accezione amplissima,
polisemica, attribuita allo stato di povertà (malattia, disabilità,
condizione di orfano ecc.), gli si attribuisce una natura
“creazionista”, assumendo alla lettera Pr.22,2 “il Signore ha creato l’uno e l’altro” (il ricco e il povero).
Parimenti,
si direbbe che è presente nell’enciclica la figura dello schiavo
moderno, in qualche modo legato come vittima, all’illegalità e
all’economia criminale (n. 123), mentre sfugge completamente la
soggettività, sofferta e oppressa, del salariato. Affermare che, ai
poveri, al di là dell’aiuto con il denaro, va offerta “una vita degna mediante il lavoro” ci riporta ad un topos, tipico dell’età
industriale/romantica, anzi della modernità, così generico ed
ambivalente, da poter essere stato declinato storicamente tanto in
chiave reazionaria (il lavoro come correttivo del peccato e del vizio
insito nella plebe e nelle “classi pericolose”) quanto in chiave
progressista (il lavoro come autorealizzazione, come mobilità
ascendente).
In realtà, il lavoro dipendente (ma anche l’autosfruttamento tipico di tante attività
autonome) di per sé non lo si può qualificare unilateralmente come
salvifico quanto a conquista di dignità, considerando che nel quadro
della globalizzazione competitiva e della deregulation
è destinato, oggi come oggi, ad una progressiva compressione e degrado:
mero flusso, pervasivo e intermittente ad un tempo, di forza-lavoro;
dedizione coatta di corpo e anima. Il lavoro va liberato, di per sé è anche “male”.
Di
contro al valore della solidarietà, la violazione della giustizia
distributiva genera sempre violenza (n. 157, penultimo capoverso), il
che comporta disordine, nuoce alla coesione sociale: è un male,
insomma, sempre e ovunque. Giudizio sul quale si può convenire o divergere: ciò su cui non si può convenire è l’asserzione che la violenza venga surrettiziamente assimilata al conflitto, che rompe con la pace sociale (e, ovviamente, con l’amore sociale: n .231), il che si configura come un giudizio ideologico, non certo evangelico (“pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione”: Lc. 12). In questo senso, che cosa significa affermare che “l’unità è superiore al conflitto” (n. 198, ultimo capoverso)?
Ciononostante, talora, contraddittoriamente, si fa riferimento alla “resistenza” (n. 111) di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico”. E a “lotte”: “camminiamo cantando! Che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza” (n. 244).
Rispetto
alla radicalità e alla perentorietà dell’analisi, qui si manifesta
un’aporia da sciogliere, ma anche uno spazio positivo da riempire: sarà
la pratica di massa del “popolo di Dio”, cui il messaggio è indirizzato,
a doversi incaricare di “oltrepassare il limite”.
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