A tre mesi dalle elezioni del 7 giugno e a uno e mezzo da quelle
anticipate del primo novembre, Erdogan non naviga in buone acque: la
strategia della paura e della destabilizzazione del paese, per
accapararsi i voti necessari a ottenere la maggioranza assoluta, non sta
dando i frutti sperati.
Secondo un sondaggio della Metropoll, pubblicato oggi, il
partito del presidente, l’Akp, è sì risalito nel consenso ma di
pochissimo: si attesterebbe al 41.4% contro il 40.9% di giugno. Un passo
in avanti insignificante, visti soprattutto gli enormi sforzi compiuti
per spingere la Turchia a elezioni anticipate in un clima di paura.
Votate il leader o il paese finirà nel caos: il messaggio è caduto nel
vuoto e a novembre Ankara rischia di trovarsi nella stessa situazione di
oggi. Piccoli cambiamenti anche per gli altri partiti: i kemalisti del
Chp sarebbero al 27,3% (contro il 25% di giugno), i nazionalisti
dell’Mhp al 15,3% (contro il 16,3%) e l’Hdp di Demirtas al 13%
(stabile).
A nulla è valsa la violenza contro il movimento kurdo del
Pkk, che ha riacceso le spinte nazionaliste e anti-kurde dell’estrema
destra turca, con centinaia di attacchi alle sedi del partito di
sinistra Hdp. Né gli assedi imposti sulle città kurde a sud, a partire
da Cizre che ha pagato con il sangue l’operazione-immagine di Erdogan:
almeno 92 civili sono morti negli scontri in città e comunità
meridionali, il 30% donne. A ciò si aggiungono i 1.116 combattenti del
Pkk uccisi in azioni dell’esercito turco e 113 membri delle forze
militari di Ankara.
E, se nel Kurdistan turco Ankara opera con la forza, nel resto del
paese agisce attraverso la censura. La guerra dell’Akp alla stampa
indipendente è storia nota, ma prosegue spedita nonostante le palesi
critiche da parte europea*. Le ultime settimane hanno visto l’arresto e la deportazione di molti giornalisti stranieri (ultimi in ordine di tempo due inglesi e un iracheno di Vice News e un giornalista olandese, mentre la Bbc è stata accusata di essere pro-Pkk), i raid contro le sedi del noto quotidiano Hurriyet, le accuse a quelli turchi considerati anti-governativi di sostenere il terrorismo del Pkk. È accaduto a giugno al commentatore del giornale Milliyet,
Kadri Gursel, licenziato dopo un tweet critico della politica di Ankara
verso l’Isis dopo l’attacco di Suruc, seguito a ruota
dall’editorialista Mehves Evin, vicino alle opposizioni. In tutto,
secondo un rapporto del Press for Freedom Project dell’Unione Europea,
in due mesi sarebbero stati licenziati almeno 140 giornalisti.
Senza dimenticare gli attacchi fisici: lunedì il direttore del magazine Nokta è stato arrestato dopo un raid nella sede del giornale per una copertina che prendeva in giro il presidente Erdogan.
E spesso la guerra se la fanno direttamente i media, tra chi sostiene Erdogan e chi si mostra più indipendente. Il quotidiano Star ha accusato Ahmet Hakan di Hurriyet
di appoggiare le azioni del Pkk, con parole durissime e minacciose,
esempio del clima che regna in Turchia: “Potremmo distruggerti come una
mosca se volessimo. Siamo stati clementi finora e tu sei ancora vivo”.
Fonte
*Palesi critiche? Insomma...
Nessun commento:
Posta un commento