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09/09/2015

Yemen - Le Petromonarchie lanciano l'invasione via terra

L’invasione via terra dello Yemen è cominciata. Quasi in sordina, come le tante notizie che giungono ormai da mesi dal paese più povero del Golfo. Secondo i dati pubblicati ieri da Al Jazeera e in parte confermati dalla coalizione anti-Houthi guidata dall’Arabia Saudita, sarebbero già 10mila i soldati inviati dale petromonarchie del Golfo in territorio yemenita.

Un numero consistente, giustificato con l’uccisione di 60 soldati di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrein, lo scorso venerdì, in un attacco missilistico da parte del movimento ribelle. In realtà, l’operazione era già cominciata: da settimane truppe di terra emiratine e saudite sono dispiegate a sud e al centro del paese, a sostegno delle forze militari fedeli al presidente auto-esiliato Hadi. Ieri fonti qatariote, ultimo paese in ordine di tempo ad inviare suoi uomini sul campo yemenita, hanno confermato: “L’operazione [per la ripresa] di Sana’a vedrà l’utilizzo di forza aerea, bombardamenti intensivi per sostenere l’offensiva terrestre”.

All’intervento del Golfo si accodano subito Sudan e Egitto, in prima fila fin dall'inizio nel sostenere la guerra sunnita al movimento sciita Houthi: fonti egiziane, ieri, hanno detto all’agenzia stampa Reuters che un certo numero di soldati, per ora non definito, sarà mandato in Yemen. Numeri più certi quelli dati dal Sudan, che dice di aver preparato un contingente di ben 6mila uomini.

L’invasione via terra è diretta alla capitale, Sana’a, occupata dagli Houthi dallo scorso settembre. Le forze del Golfo si sposteranno verso la città partendo dalla provincia orientale di Ma’rib (dove soldati sauditi e emiratini sono di stanza da settimane), da quella nord-occidentale di Saada e da quella nord-orientale di Al Jawf. I qatarioti stanno entrando dal confine nord con l’Arabia Saudita, pronti ad accerchiare la capitale sulla quale il movimento Houthi ha dichiarato lo stato di emergenza.

Con l’aumento del numero di truppe straniere, aumentano anche i raid aerei, mai così violenti dall’inizio dell’operazione “Tempesta decisiva”, lanciata dall’asse sunnita lo scorso 26 marzo. Da sabato oltre 40 civili sono morti nella città di Yarim, oltre 30 solo ieri: dieci a San’a, 21 a Bayhan. Incerta la sorte di 20 pescatori indiani: ieri la stampa araba riportava della loro uccisione in un raid aereo che aveva colpito i loro pescherecci lungo la costa di Al-Khokha, nelle vicinanze di Hodeidah. Riyadh si era giustificata dicendo di aver avuto come target navi che contrabbandavano carburante, ormai introvabile in Yemen a causa del blocco imposto dalla famiglia Saud. Questa mattina il Ministero degli Interni yemenita ha ridimensionato la strage: sette pescatori sarebbero morti, altri 13 sarebbero ancora vivi.

Nulla cambia nemmeno sul piano diplomatico: l’ultima proposta degli Houthi, trasmessa al presidente Hadi tramite l’inviato Onu per lo Yemen Ismail Ould Cheikh Ahmed, di formazione di un governo di unità nazionale è stata rigettata dal governo in esilio.

La guerra vive così una nuova fase, nella chiara intenzione di piegare una volta per tutte la resistenza, lunga ormai un anno, degli Houthi. Le conseguenze, con estrema probabilità, saranno drammatiche per la popolazione civile, già schiacciata da mesi di conflitto interno e intrappolata nel paese: solo poche centinaia di migliaia di yemeniti sono riusciti a fuggire, prendendo il mare verso Gibuti; la gran parte degli sfollati, oltre un milione, è bloccato nel paese soffocato dal blocco navale e aereo saudita.

Sul campo è difficile immaginare “una guerra lampo”: il conflitto, che vede coinvolte tante forze interne oltre ad Houthi e governo ufficiale (i movimenti secessionisti del sud, le tribù, al Qaeda nella Penisola Arabica, l’Isis) e tanti attori esterni, porterà probabilmente ad uno scenario simile a quello siriano e libico. Poteri che si dividono il paese in aree di influenza, nessuno in grado di prevalere sull’altro, violenza strutturale, assenza dello Stato. E, alla fine, la possibile frammentazione dello Yemen in Stati federali o totalmente indipendenti.

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