L’invasione via terra dello Yemen è cominciata. Quasi in sordina,
come le tante notizie che giungono ormai da mesi dal paese più povero
del Golfo. Secondo i dati pubblicati ieri da Al Jazeera e in parte
confermati dalla coalizione anti-Houthi guidata dall’Arabia Saudita,
sarebbero già 10mila i soldati inviati dale petromonarchie del Golfo in
territorio yemenita.
Un numero consistente, giustificato con l’uccisione di 60 soldati di
Arabia Saudita, Emirati Arabi e Bahrein, lo scorso venerdì, in un
attacco missilistico da parte del movimento ribelle. In realtà,
l’operazione era già cominciata: da settimane truppe di terra emiratine e
saudite sono dispiegate a sud e al centro del paese, a sostegno delle
forze militari fedeli al presidente auto-esiliato Hadi. Ieri
fonti qatariote, ultimo paese in ordine di tempo ad inviare suoi uomini
sul campo yemenita, hanno confermato: “L’operazione [per la ripresa] di
Sana’a vedrà l’utilizzo di forza aerea, bombardamenti intensivi per
sostenere l’offensiva terrestre”.
All’intervento del Golfo si accodano subito Sudan e Egitto, in prima
fila fin dall'inizio nel sostenere la guerra sunnita al movimento sciita
Houthi: fonti egiziane, ieri, hanno detto all’agenzia stampa
Reuters che un certo numero di soldati, per ora non definito, sarà
mandato in Yemen. Numeri più certi quelli dati dal Sudan, che dice di
aver preparato un contingente di ben 6mila uomini.
L’invasione via terra è diretta alla capitale, Sana’a, occupata dagli Houthi dallo scorso settembre. Le
forze del Golfo si sposteranno verso la città partendo dalla provincia
orientale di Ma’rib (dove soldati sauditi e emiratini sono di stanza da
settimane), da quella nord-occidentale di Saada e da quella
nord-orientale di Al Jawf. I qatarioti stanno entrando dal
confine nord con l’Arabia Saudita, pronti ad accerchiare la capitale
sulla quale il movimento Houthi ha dichiarato lo stato di emergenza.
Con l’aumento del numero di truppe straniere, aumentano anche i raid
aerei, mai così violenti dall’inizio dell’operazione “Tempesta
decisiva”, lanciata dall’asse sunnita lo scorso 26 marzo. Da
sabato oltre 40 civili sono morti nella città di Yarim, oltre 30 solo
ieri: dieci a San’a, 21 a Bayhan. Incerta la sorte di 20 pescatori
indiani: ieri la stampa araba riportava della loro uccisione in
un raid aereo che aveva colpito i loro pescherecci lungo la costa di
Al-Khokha, nelle vicinanze di Hodeidah. Riyadh si era giustificata
dicendo di aver avuto come target navi che contrabbandavano carburante,
ormai introvabile in Yemen a causa del blocco imposto dalla famiglia
Saud. Questa mattina il Ministero degli Interni yemenita ha
ridimensionato la strage: sette pescatori sarebbero morti, altri 13
sarebbero ancora vivi.
Nulla cambia nemmeno sul piano diplomatico: l’ultima proposta
degli Houthi, trasmessa al presidente Hadi tramite l’inviato Onu per lo
Yemen Ismail Ould Cheikh Ahmed, di formazione di un governo di unità
nazionale è stata rigettata dal governo in esilio.
La guerra vive così una nuova fase, nella chiara intenzione di
piegare una volta per tutte la resistenza, lunga ormai un anno, degli
Houthi. Le conseguenze, con estrema probabilità, saranno drammatiche per
la popolazione civile, già schiacciata da mesi di conflitto interno e
intrappolata nel paese: solo poche centinaia di migliaia di yemeniti
sono riusciti a fuggire, prendendo il mare verso Gibuti; la gran parte
degli sfollati, oltre un milione, è bloccato nel paese soffocato dal
blocco navale e aereo saudita.
Sul campo è difficile immaginare “una guerra lampo”: il
conflitto, che vede coinvolte tante forze interne oltre ad Houthi e
governo ufficiale (i movimenti secessionisti del sud, le tribù, al Qaeda
nella Penisola Arabica, l’Isis) e tanti attori esterni, porterà
probabilmente ad uno scenario simile a quello siriano e libico.
Poteri che si dividono il paese in aree di influenza, nessuno in grado
di prevalere sull’altro, violenza strutturale, assenza dello Stato. E,
alla fine, la possibile frammentazione dello Yemen in Stati federali o
totalmente indipendenti.
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