Le dichiarazioni dell’ambasciatore americano, John Phillips, sull’importanza del “Si” al referendum italiano
rappresentano la norma di questi tempi. Si tratta di tempi che
qualcuno, di riflesso, ha subito confuso con gli anni ’70, quando la Cia
lavorava sia per preparare il golpe di Pinochet che per far cadere il
prezzo del rame e impoverire la principale risorsa dell’allora governo
Allende. Confusione che, tra l’altro, è stata indotta dalla contemporanea
dichiarazione del responsabile Fitch, agenzia di rating, per la
valutazione dei titoli sovrani in Europa e Medio Oriente, Richard Parker.
Nel ventunesimo secolo, bisogna
ricordarlo, le agenzie di rating manifestano la loro indipendenza dal
governo americano. Basterebbe ricordare che nell’estate di cinque anni
fa hanno declassato i bond federali. Questo per chiarire in un secondo
la differenza tra sovrapposizione di interessi tra governo e agenzie di
rating: Standard & Poors ad esempio ha minacciato di
declassare il debito turco, la cosa faceva comodo all’amministrazione
Obama (che ha frizioni serie con la Turchia) ma le altre due
principali agenzie di rating non ci hanno, per adesso, nemmeno pensato.
Questo per dire: la finanza Usa, o almeno quella con marchio stelle e
strisce, è autonoma dal governo federale. A volte gli interessi tra le
due dimensioni si sovrappongono a volte no. In questo caso, l’Italia, c’è
convergenza di interessi. A sostenere un governo che buona parte
dell’establishment attuale Usa ritiene amico (quello Renzi) e a creare
un po' di volatilità sul mercato da parte di Fitch (la quale si sarà
sicuramente confrontata con qualche grosso cliente).
Sulla dichiarazione di Fitch niente di
eclatante, infatti non è certo crollata la borsa, perché non si tratta
di un abbassamento del rating. In quest’ultimo caso si sarebbe trattato,
invece, di un problema immediato perchè il declassamento del rating
viene, una volta avvenuto, istantaneamente aggiornato nei software di
trading. Quelli che movimentano dal 50 al 70 per cento del mercato a
seconda dei mercati e a seconda delle stime. Allora, tra aumento dello
spread tra bond tedeschi e italiani e ennesimo crollo dei titoli
bancari, un po’ di morti sul campo li avremo visti. La
dichiarazione di Ficth rappresenta solo, piuttosto, una cannonata per
saggiare il terreno, le reazioni degli operatori di borsa, dei fondi di
investimento e dei governi. Per capire se col
referendum italiano è possibile movimentare un po' di volatilità, attorno
all’Italia che è nella top five dei mercati globali del debito
pubblico, in modo da rastrellare profitti con le solite transazioni a
breve (in questo caso un rapido movimento di vendite e di acquisti che
si gioca attorno a fatti eclatanti). Questo lavoro è più affare
delle agenzie di rating che dei governi, che hanno funzione di supporto
anche se, volendo, le agenzie Usa avrebbero abbastanza risorse per
mettere in difficoltà la borsa italiana.
Ma il primato, della forza e della
pressione politica, in questo campo è delle corporation finanziarie ed è
sempre quello il potere in ultima istanza su questo terreno. Questa è
la nuova normalità e da tempo: qualsiasi cosa accada su questo terreno
si deciderà quindi a Wall Street non a Washington DC. Non siamo più
negli anni ’70. Basta vedere la crescita, in termini numerici e di peso
politico, delle agenzie di rating da allora ad oggi per capirlo. Con
l’Italia si prova quindi a fare lo stesso gioco messo in campo durante
il referendum scozzese e quello inglese: mettere in campo una
sovrapposizione di interessi tra politica e finanza per indirizzare il
voto, spaventando gli elettori, e creare quella volatilità
finanziaria necessaria per fare, sull’onda della paura, un po’ di soldi
(alla Lewis Ranieri ne La grande scommessa: “facciamo un po’ di soldi”).
La cosa funziona in questo modo:
in un referendum importante si crea incertezza (sul risultato) e paura
(se il vincitore è di quelli che spaventano il media mainstream). Si
rompe la monotonia di borsa, titoli vacillano, alcuni salgono altri
scendono e, dopo la fine del referendum, vince chi ha saputo giocare
sulle oscillazioni dei mercati. Questo gioco, o questa festa a
seconda dei punti di vista, si rende tanto più necessario nel new normal
del mondo dei tassi zero, in cui i rendimenti dei bond sono bassi e
prestare il denaro è qualcosa di simile al non sense. La paura, la
volatilità possono generare, a breve, interessi più alti o possibilità
di acquisto di titoli a prezzo di favore. Oppure si può speculare alla
grande su titoli scommessa (i future), le assicurazioni sul rischio (gli
swap) e davvero miriadi di altri prodotti finanziari degni di una
fantasia letteraria. Infatti, e qui è meglio essere chiari, il vero
affare qui non è il voto, o il risultato del voto, ma la possibilità di
guadagnare dall’instabilità di borsa. Il resto è fantasia di complotto. Alle borse non interessa tanto il risultato di un referendum ma saper capire la volatilità dei mercati per estrarre valore.
Allo stesso tempo, siamo in una
situazione diversa dalla guerra finanziaria, giocatasi sul rublo, tra
Usa e Russia all’indomani della fase più dura della guerra ucraina.
Quando l’interesse geopolitico ha creato l’occasione per una grossa
speculazione sulla moneta russa che generò un saliscendi del rublo
(discesa favorita dagli Usa, salita favorita dalla banca centrale russa)
che fece la gioia sia di ribassisti che di rialzisti. Siamo alla
piccola bolla speculativa, fatta per adesso di dichiarazioni orientate e
gonfiate, di un paese che si sa, storicamente, incline all’obbedienza
in ultima istanza. Certo, se nelle settimane prima del referendum la
borsa, i bond e i titoli bancari scenderanno drammaticamente l’Italia
avrà saggiato, per la seconda volta dopo 5 anni (la crisi del debito
sovrano), come funzionano i mercati tanto celebrati da Repubblica e il
Corriere. Nel frattempo ascoltiamo qualche cannonata, in forma di
dichiarazioni della ambasciata americana e di Fitch, eco di un mondo
reale che in questo paese stenta a trovare ascolto e, meno che mai,
cittadinanza.
Redazione, 15 settembre 2016
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