Cosa succede quando la settima compagnia marittima mondiale dichiara bancarotta? Centinaia di navi che vagano nel mare, personale bloccato a bordo e che non tocca terra da mesi, debiti verso 43 Stati diversi. Il caso della coreana Hanjin potrebbe non essere l'unico al mondo dato che di zombie carrier sembra ce ne siano molte a spasso per gli oceani
Sergio Bologna - tratto da http://www.dinamopress.it
Gli analisti lo aspettavano da tempo e finalmente è arrivato, il perfect storm. A guardarlo un po’ da vicino è uno spettacolo sconvolgente ma affascinante, perché con un colpo d’occhio ti permette di vedere l’essenza della logistica, la sua vera natura, capisci perché la chiamano the physical Internet, ti rendi conto di cos’è la globalizzazione.
È accaduto nello shipping specializzato nel traffico container: la settima compagnia marittima mondiale, la coreana Hanjin, ha fatto bancarotta. Gravata da 4,5 mld di dollari di debiti degli ultimi cinque anni, non è riuscita a convincere le banche a tenerla ancora in piedi. In realtà non ha convinto il governo della Corea del Sud, perché il principale finanziatore di Hanjin è la Korean Development Bank, istituto pubblico, che già è alle prese con la situazione critica dell’altra compagnia marittima importante, Hyundai Merchant Marine (HMM), e con quella dei due cantieri navali, Stx Offshore&Shipbuilding e Daewoo, quest’ultimo una potenza nel suo settore, in grado di applicare sulle sue costruzioni le più sofisticate tecnologie ma caduto nelle mani di manager ladri e disonesti.
A dirla così sembra cosa di ordinaria amministrazione, immaginate però cosa significa avere una flotta di circa 100 navi, cariche di merci valutate sui 14 miliardi di dollari, che vagano per i mari in quanto, se toccano un porto, rischiano di essere sequestrate su richiesta dei creditori con tutto il loro carico. Ed in effetti la Daily Edition di Lloyd’s List del 13 settembre dava per 14 il numero delle navi già sequestrate: oggi a più di due settimane dal crack, la situazione è ancora confusa e cambia di ora in ogni ora.
Alcune navi sono ferme in porto in attesa della decisione dei magistrati, altre sono alla fonda davanti al porto di destinazione e non possono muoversi. Come la ‘Hanjin Rome’, abbordata davanti a Singapore da una troupe della BBC, cui però è stato negato l’accesso, ma che comunque ha potuto intervistare su Facebook il comandante, per farsi dire che lui non ne sapeva nulla, la sua compagnia non lo aveva informato di niente e, mentre si apprestava ad entrare in porto, si era visto piombare addosso un rappresentante legale dell’ente, che gli aveva intimato di non muoversi e stava lì da quasi due settimane senza sapere che poter fare…
Si valuta che siano sui 2.500 uomini d’equipaggio bloccati in giro per il mondo, che non trovano un provveditore di bordo disposto a vendere loro una scatoletta di tonno o una bottiglietta d’acqua, ma chiedono soprattutto tessere SIM per poter comunicare coi loro cari. In un porto canadese ha dovuto soccorrerli la missione Stella Maris. Su un’altra nave Hanjin è invece bloccata una performer (si può dire così?) dell’absurdist art (quante cose s’imparano in casi come questi!) impegnata in un progetto culturale finanziato da una Galleria d’arte di Vancouver e intitolato “23 giorni in mare”. Era al suo 22mo giorno di navigazione e di cose assurde ne avrà viste e continuerà a vederle, per cui rischia di scoprire che la sua absurdist art non è poi così lontana dall’iperrealismo di Duane Hanson.
Spettacolare è l’intreccio delle ramificazioni di questo crack. Sono 43 gli stati dove Hanjin deve affrontare le corti di giustizia. Per cominciare: le navi non sono di proprietà e quelle di sua proprietà in buona parte non valgono un accidente, sono navi piccole, messe fuori mercato dall’allargamento del Canale di Panama, troppo giovani per essere mandate in demolizione. Il 60% della flotta è a noleggio e Hanjin non paga il noleggio da tempo, rischiando di mandare a picco società di antico nome, come Peter Dohle di Amburgo, la Danaos greca, la Seaspan canadese.
Sono una quindicina le società che hanno noleggiato a Hanjin le loro navi ma in termini di capacità di carico le prime 4 fanno più del 50%. Poi ci sono i porti a cui non sono state pagate le tasse di ancoraggio o i servizi (rimorchio, ormeggio), i terminal che hanno caricato e scaricato le navi Hanjin a credito, il Canale di Suez che deve avere dei grossi crediti, perché oggi non lascia passare le navi sudcoreane, i fornitori di bordo, le agenzie di reclutamento degli equipaggi, quelle di gestione della nave ecc. ecc.. E qui non finisce, comincia. Perché il grosso è rappresentato dalle migliaia di società, di spedizionieri, di operatori logistici che hanno affidato la loro merce a Hanjin, qualcosa come trequattrocentomila contenitori (la capacità totale della flotta Hanjin viene valutata in 600 mila TEU), merce che rimane bloccata a bordo.
Ma fosse solo questo... Le compagnie marittime di container oggi operano in consorzi o “alleanze” per scambiarsi i carichi, secondo una serie di agreement complicati di slot sharing e quindi un container affidato a Hanjin può viaggiare sulle navi di un’altra compagnia e viceversa. Quindi la richiesta di arresto o di sequestro può teoricamente coinvolgere la nave di una compagnia che opera normalmente, solo perché trasporta dei container di Hanjin. La quale era specializzata nei traffici Asia-West Coast USA, dove operava con 33 navi e una quota di mercato molto importante, attorno all’8%, più che altro perché aveva quasi il monopolio delle spedizioni di Samsung e di altri colossi manifatturieri coreani.
Sicché le notizie più dettagliate sul crack sono quelle che riguardano i grandi retailer USA esercitare pressioni anche su Obama, oltre che sui porti degli stati della costa ovest e sui terminal, perché le merci possano essere scaricate e consegnate a chi le ha acquistate. Hanjin ha presentato istanza di fallimento negli USA per godere della protezione accordata dall’art 15 della legge fallimentare. In Italia le associazioni dei tre spedizionieri hanno sottoscritto una polizza fidejussoria a garanzia dei creditori per poter scaricare la merce. Da tutto questo si può capire il rompicapo delle compagnie di assicurazione di mezzo mondo (e il volume delle parcelle degli avvocati). Perché è successo, perché doveva succedere?
Perché da anni le compagnie marittime viaggiano in perdita, hanno messo in servizio troppe navi, hanno continuato a ordinarle ai cantieri sempre più grandi, i cantieri si sono fatti concorrenza spietata e le hanno costruite, malgrado siano dei gioielli tecnologici, a prezzi stracciati, i noli sono andati a picco, i volumi crescevano ma il guadagno per unità di carico trasportata diminuiva. Poi la Cina ha rallentato l’export ed è arrivato il perfect storm. E adesso? Quante delle dieci-quindici compagnie che contano rimaste sul mercato sono dei zombie carrier?
Così vengono chiamate quelle che stanno in piedi solo perché le banche decidono di non farle fallire (a proposito, quasi l’80% delle compagnie armatoriali italiane è in queste condizioni). L’Economist segnala che delle prime 12 mondiali 11 hanno segnato pesanti perdite quest’anno (già, ma la 12ma è la MSC, che nella sua storia non ha mai fatto trapelare una notizia che sia una sui suoi conti...). La Maersk, prima al mondo, sempre secondo la stessa fonte, perde 11 dollari per ogni container trasportato, mica male, Hanjin ne perdeva 100. E chi sarà la prossima a cadere?
La Daily Edition del sito di Lloyd’s List riportava in prima pagina il 16 settembre il nome di Rickmers, come società a rischio (Rickmers warns of liquidation if debt restructuring fails). Rickmers, glorioso nome dello shipping tedesco, traslocata a Singapore, è piccolina però in confronto a Hanjin. Oggi, a disastro avvenuto, c’è chi dice che è colpa dei clienti, a voler pagare sempre meno ed a fidarsi di chi offre il prezzo migliore anche se si sa che è alla canna del gas e può fallire da un momento all’altro. Ma non si è mai visto un logistico replicare a un trasportatore che gli chiede 1.000 per portargli un container oltremare: “No amico, te lo pago 1.100”.
Come si è visto nel settore bancario, la filosofia del too big to fail, tipica della debit economy, è semplicemente il riflesso della pigrizia mentale del management moderno. Che ancora una volta appare quasi come il cancro del capitalismo contemporaneo. Questi manager di alto livello, dagli stipendi favolosi, privi di idee di business, privi di animal spirit, del tutto irresponsabili, tanto se va a picco la società loro non ci rimettono, non sembrano persone, sono oggetti intercambiabili, tutti uguali. Uno di loro ha confessato: “Come ci muoviamo? Beh, guardiamo quello che fa il più forte di tutti (in questo caso la Maersk, prima compagnia mondiale, NdA) e lo copiamo.”
Gli analisti di Alphaliner hanno usato parole durissime sia verso il governo coreano sia verso il 4 management per non aver agito in tempo ma soprattutto, una volta constatata l’impossibilità di salvare Hanjin, per non aver nemmeno tentato di fare in modo che la bomba scoppiasse con i minori danni possibili.
Sono anni che i migliori analisti ed esperti predicano la necessità di cambiare modello di business delle compagnie marittime del container. Niente, si preferisce andare avanti sulla stessa strada, quasi sempre a spese della forza lavoro. E di riflesso si comportano alla stessa maniera i manager portuali, che in questi ultimi anni, con un mercato sempre più fuori controllo, hanno continuato a costruire porti sempre più grandi, in un delirio infrastrutturale favorito e incentivato dalle politiche insane dell’Unione Europea, che continua a credere nella teoria che la costruzione di infrastrutture fisiche rilanci l’economia.
Solo di recente, nel 2015 si sono avvertiti i primi segnali di un ripensamento, si sono denunciati i rischi del gigantismo navale, si è messo il dito, in Europa, su porti costruiti ex novo e rimasti vuoti, come in Spagna o al Nord e qualcuno anche in Italia. La riforma portuale che il governo Renzi sta portando avanti è debole e difficile da attuare ma bisogna dare atto al Ministro Delrio di aver cambiato rotta e di operare, con gli ottimi tecnici di cui ha saputo circondarsi, per fermare, finché si è in tempo, i progetti più inutili e discutibili, sostenuti, come al solito, da governatori di regioni, sindaci e lobby cementizia diffusa.
Sul piano globale che succederà ora? I noli si sono alzati, i concorrenti si sono già gettati sulle spoglie di Hanjin. Maersk e MSC, le due prime compagnie mondiali, hanno riempito in pochi giorni il buco lasciato da Hanjin sulla rotta transpacifica. Ogni giorno viene fuori qualcuno a dire che questa crisi è salutare, che ci voleva proprio. Invece la mia opinione è che non cambierà nulla, così come non è cambiato nulla nel mondo bancario dopo il crollo di Lehman Brothers. Oltretutto non si vede chi potrebbe avere la forza e l’autorità di cambiare qualcosa e di far cambiare agli altri qualcosa.
Il mare continua a essere terra di nessuno. Gli organismi di regolazione continuano a sfornare norme ma il potere costrittivo per farle applicare non c’è. Anche in questo caso la solerzia normativa produce inutile burocrazia, un capitano di nave deve riempire tante scartoffie quando naviga che ci si chiede come abbia tempo di fare altro, ma quando si arriva al dunque casca l’asino.
In questi ultimi anni ho seguito alcuni grandi incidenti in mare nel settore cargo, dalla dinamica dell’accaduto ai report degli organi investigativi ai processi ai responsabili (o alle teste di turco), per constatare una volta di più che i colpevoli o se le cavano sempre o nemmeno vengono alla luce. Ci sarebbe un solo modo per cambiare le cose: una rivolta generalizzata della forza lavoro coinvolta nella catena di trasporto, ma sappiamo che è utopia, le 5 condizioni materiali d’isolamento in cui vive un equipaggio sono di per sé garanzia di assoggettamento.
Tuttavia è un dato di fatto che la conflittualità all’interno della Global Supply Chain è in aumento, è una conflittualità endemica con talune punte molto alte, riguarda le condizioni di lavoro, il salario, l’occupazione, ma anche, in misura crescente, la sicurezza. Last but not least. Alcuni organi di stampa molto accreditati nell’universo finanziario si sono chiesti se la crisi di Hanjin può restare confinata al settore dei traffici marittimi e della logistica o può investire anche la grande finanza.
Da tempo le banche specializzate nel credito navale sono sull’orlo della crisi, si barcamenano tra bail out e cessioni dei crediti in sofferenza, i fondi d’investimento tedeschi specializzati nel noleggio e gestione di naviglio conto terzi, sono falliti a centinaia (era il tema del mio scritto “Il crack che viene dal mare”, redatto in epoca non sospetta: dicembre 2012). Ciononostante l’insieme del capitale mobile ed immobile investito nel settore navale è una parte modesta del sistema finanziario mondiale.
Molto più preoccupante mi sembra invece dover constatare che l’unica ricetta oggi in voga per rilanciare l’economia, quella del quantitative easing delle Banche Centrali, sembra non funzionare, in particolare in Europa ma ormai anche, dalle ultime notizie, negli Stati Uniti. Se non tira l’economia, lo shipping non marcia.
Aggiungiamo a questo la fragilità del sistema bancario cinese, su cui molti acuti osservatori stanno puntando il dito da anni, e ci accorgiamo che, dopotutto, la crisi di Hanjin forse non è poi così drammatica. C’è di peggio, il problema è alla radice. Purtroppo siamo talmente impotenti che non ci resta che sperare che un nuovo crack stile 2008 – ma stavolta sarebbe una deflagrazione molto più devastante – non debba accadere, magari domani... O nel 2017, centenario della rivoluzione di ottobre. Perché allora vedremmo affiorare sul volto del povero Lenin, che in questi decenni si dev’essere rivoltato nella tomba come un trottola, un sarcastico sorriso di Schadenfreude.
20 settembre 2016
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