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27/09/2016

Polizia francese: “Ti stupriamo, veniamo a casa tua, veniamo alla Sorbona a sterminare te e i tuoi colleghi”

Proponiamo questa traduzione di un articolo francese che racconta la testimonianza diretta e cruda di un episodio di violenza poliziesca. L'articolo ha avuto una notevole eco in Francia, sia in rete che sui social. Crediamo che la violenza poliziesca di cui parla sia oggi “normale” nel Paese transalpino, in particolar modo verso le persone “razzializzate”, e che la deriva autoritaria sempre più evidente non abbia bisogno del Front National per affermarsi, ma anzi sia del tutto efficiente grazie al rodato sistema di potere del Partito Socialista.

*****

Uscivo da una stazione della banlieue con un’amica, a fine giornata. Sul punto di passare i tornelli, sentiamo delle urla. Non un grido normale, un grido di dolore, intenso. Capiamo immediatamente che sta succedendo qualcosa. L’attenzione nostra e della gente che ci sta attorno è attirata da una scena che si svolge alla nostra sinistra. Una donna nera di una cinquantina d’anni è ammanettata, ed urla che le manette le tagliano i polsi, che non ne può più. Tra lei e il piccolo capannello di persone che si è formato, una trentina di poliziotti equipaggiati, con un cane d’assalto. C’è la sicurezza ferroviaria e la polizia nazionale.

Le persone sono inquiete, l’atmosfera tesa, tutti domandano cosa stia succedendo e perché questa donna viene torturata nel mezzo della strada. La scena colpisce, ricorda quella che è seguita all’assassinio di Adama, ricorda le immagini delle mobilitazioni negli Stati Uniti: una fila di poliziotti, di fronte a un’altra fila d’abitant* ner* della città. Quest* ultim* sono bianc* e completamente diffident*. Un uomo racconta come suo fratello fosse stato fermato senza ragione, preso in custodia e malmenato. La polizia ci dice di “levarci di torno”.

Avevo paura. Per la vittima del fermo, per questa scena razzista. Mi sembrava che la polizia potesse andare fuori controllo in qualsiasi istante. Ho preso il telefono per filmare la scena, dicendomi che questo avrebbe potuto contenere la situazione, far scendere il livello di impunità. Ma non è durata che un minuto. Uno dei poliziotti mi prende per la spalla sinistra e mi fa girare: «A questo facciamo un controllo di identità». Domando perchè, mi strappa il telefono. Gli dico che non ha il diritto di consultarlo senza un mandato di perquisizione.

Tutto accelera: appena riescono a tirarmi dal loro lato del cordone formato dagli altri sbirri, si mettono in due sopra di me, ognuno torcendomi un braccio. Un dolore enorme mi attraversa le articolazioni. Ho le due braccia torte contro la schiena, con questi due uomini messi in posizione strategica, a premere con tutta la loro forza per schiacciarmi contro il muro. A più riprese, mi liberano appena e poi mi spingono di nuovo, per farmi sbattere contro la parete. All’inizio, ho pensato che volessero solo intimidirmi e tenermi buono. Ma non mollano. Ho il fiato corto e non protesto più, mi dicono che mi rinchiuderanno per “oltraggio” o “resistenza”, e cercano di creare accuse dal nulla.

Il peggio in realtà non è il dolore. I due poliziotti che mi stanno addosso sono sovraeccitati. E si lasciano andare. Crani rasati, occhi che brillano, faccio fatica a credere che la situazione sia reale. «Ti ammazziamo, sei morto, ti disfiamo, ti distruggo qui sul posto in dieci minuti». E man mano le cartilagini si tirano sotto la loro presa, mi spingono le mani sulla schiena, e fanno aumentare la torsione. La guardia che sta alla mia sinistra mi mette la mano sul sedere. «Credevi di giocare con la polizia? Guarda come giochiamo noi con te». E mi sferra un primo calcio. Poi mi rimette la mano sul sedere. Con le braccia messe così, non posso respirare normalmente. Un altro calcio. «Ti violentiamo, ti piace l’idea? Ti stupro e vediamo quanta voglia ti rimane di filmare la polizia».

E continua. «Sostieni Daesh, è così?». «Quando arriveranno tu cosa farai? Glielo succhi?”. «A quel punto non ci sarà da piangere ma da chiedere che ti si protegga». Ho realizzato solo in un secondo momento, che parlavano di Daesh per giustificare il loro comportamento verso una donna razializzata, che aveva dimenticato il proprio abbonamento metro.

Mi aprono lo zaino e mi prendono il portafogli, me lo svuotano sulla schiena. Mi prendono le sigarette, e mi dicono di sedermici sopra. Trovano la mia carta di insegnante universitario precario. «Sei professore? Quando lo Stato Islamico verrà alla Sorbona, li starai a guardare mentre ti fai una sega?». E la guardia a sinistra: «Guardami, sporco frocio. Puttana. Abiti lì eh? (indica il mio palazzo). Vengo da te, con un passamontagna, e ti stupro». Sono completamente scioccato, penso abbia ripetuto le stesse minacce una ventina di volte in tutto. Sto avendo a che fare con delle guardie politicizzate, delle guardie dello stato d’emergenza permanente, che si sentono in guerra contro Daesh, un Daesh che associano a qualsiasi persona razializzata, un Daesh con cui io mi sarei alleato nel momento in cui ho solidarizzato con la loro vittima giornaliera.

Rincarano ancora un po’ la dose. «Ora ti facciamo un po’ provare il teaser, vedi un po’ come pizzica». E sempre la guardia di sinistra, mi dà una scarica nel braccio. Sobbalzo, e mi metto a tremare. Cerco di non mostrarlo, non dico nulla, ma il pensiero che mi viene in quel momento è che la situazione rischia di andare ulteriormente fuori controllo. Che mi torceranno ancora il braccio, o che mi colpiranno col tonfa prima di caricarmi e portarmi via. «Tu muori!». «Ti inculo!». Parole sempre seguite da palpate. E il male nelle braccia, nelle spalle, nella schiena è così forte che mi dico che mi devo preparare mentalmente a una frattura.

Dietro, sento la mia amica che urla, che gli dice di lasciarmi andare. Vorrei dirle di lasciar perdere. Ho il peso sullo stomaco di cosa le potrebbero fare se la fermano. Ma nel frattempo il capannello di gente è forse aumentato, e il gruppo di poliziotti sa di non poter far durare la situazione per sempre. La guardia che mi torce il braccio destro mi dice: «Bisogna che prendiamo la tizia, la accusiamo di resistenza».

Sento che discutono tra loro. Uno dei due uomini mi molla il braccio e mi dice: «Guarda il muro. Se ti giri, se ti muovi, ti apro il cranio”. Non mi muovo. «Verremo alla Sorbona, sterminiamo te e i tuoi colleghi, sporco sinistroide». Poi mi girano e mi trovo davanti gli occhi sporgenti della guardia che mi teneva il braccio sinistro. «Sei a contratto, bastardo? Ti facciamo un rapporto pesante, la tua posizione te la puoi infilare nel culo». Non dico niente. Mi premono sul petto. «Ora sblocchi il telefono e cancelli il video». Eseguo, dicendomi che è nella testa e non in queste immagini ferme di un assembramento, che è inciso quello che è appena successo. Mi strappa il telefono, apre la cartella delle foto, e inizia a guardare tutto.

Poi di colpo, il resto del loro gruppo carica gli abitanti che si erano raggruppati. Rapidi ed estremamente violenti. Vedo i loro cani che si lanciano sulle persone, le guardie con lo spray e i manganelli. Tutt* scappano, in panico, comprese le persone anziane. Le due guardie che mi hanno aggredito mi lanciano il portafoglio e il suo contenuto, e partono correndo. Ho paura per la mia amica, non la vedo. Ma finalmente noto che sta tornando verso di me, è riuscita a scappare. Non c’è altro da fare che tornare a casa, la rabbia che mangia lo stomaco, il torso anchilosato e dolorante. Mi dico che questa polizia razzista si sarebbe spinta molto oltre se fossi stato una persona razzializzata. Un uomo ci spiega che è così in tutta la città da questa mattina. «Vedete non ci si fa nulla, molestano la gente a caso per far nascere dei problemi». Ci confortiamo a vicenda, augurandoci buona fortuna. Ce ne sarà bisogno, ma non ne siamo certo privi.

Ritornando a casa, ho pensato al pezzo di D’ de Kabal, che racconta esattamente la stessa scena.



da http://www.globalproject.info/

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