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Nella discussione sulla imminente legge di stabilità (da approvare entro fine ottobre) non poteva mancare il tema della produttività, tormentone d’Italia. Ma stavolta si fa sul serio, puntando tutto su questa parola, soprattutto ora che gli argomenti a favore di sgravi e jobs act si sono esauriti con il susseguirsi dei dati sul mondo del lavoro, in perenne affanno.
Già in agosto, il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Tommaso Nannicini, ha scoperto le carte a proposito degli incentivi alla produttività: cioè la defiscalizzazione dei premi di risultato, legati alla produttività, per stimolare la contrattazione aziendale e rendere le retribuzioni più variabili.
Ossia: gli aumenti retributivi saranno concessi in base ai risultati d’impresa e saranno tassati al 10 per cento piuttosto che in base alle aliquote Irpef applicabili al totale della retribuzione. Così ha detto Nannicini al Sole24ore: “I passi successivi potrebbero essere di rendere più ampie quelle agevolazioni fiscali [sui premi di produttività], raggiungendo anche altre platee di lavoratori con un innalzamento del tetto del reddito ammissibile o anche alzando l’ammontare del bonus”.
Ancora sgravi alle imprese e non sostegno ai salari
Si vuole dunque estendere quanto già approvato con la legge di stabilità 2016 che prevedeva per i soli dipendenti privati una addizionale Irpef del 10 per cento per i premi fino a 2.500 euro e una esenzione totale dei premi erogati dalle aziende ai propri dipendenti sotto forma di welfare aziendale, cioè beni e servizi (principalmente baby sitter, asili, sanità integrativa), per coloro che hanno un reddito annuale entro i 50mila euro.
Per il 2017, l’idea è quella di aumentare sia il valore dei premi agevolati (fino a tremila euro) sia il limite di reddito massimo che consente di percepirli (fino a 60mila euro, o addirittura fino a 70-80mila, secondo le ultime informazioni riportate dal Sole24ore). Secondo le simulazioni del governo, il provvedimento costerebbe 829 milioni di euro: 589 già messi a bilancio in base alle disposizioni del 2016 e 240 (o circa 350 milioni nel caso di ulteriore estensione) dovuti all’ampliamento previsto per il prossimo anno. Il mancato gettito che la detassazione comporta ridurrà le entrate del bilancio pubblico che dovrebbero finanziare la spesa pubblica.
Le casse dello stato perderanno un gettito pari a 87 euro per lavoratore
Sta per essere approvata l’ennesima politica che in ogni caso andrà a beneficio dei costi dell’impresa e non invece a coprire l’aumento della domanda effettiva che comprende oltre agli investimenti, sia i salari sia la spesa pubblica a supporto delle famiglie e della società nel suo complesso.
Un imprenditore che volesse concedere 500 euro netti di premio di produttività, nel caso di aliquota più bassa in precedenza avrebbe dovuto pagare il 27,5 per cento di Irpef, quindi 637 euro. Nel caso in cui i cinquecento euro fossero detassati come prevede adesso la legge di stabilità, allora basterà versare al lavoratore 550 euro. Le casse dello stato perderanno un gettito pari a 87 euro per lavoratore.
Ovviamente estendendo il beneficio a coloro che guadagnano fino a 60mila euro, i risparmi per le imprese saranno maggiori così come le mancate entrate per il bilancio pubblico, lo stesso che poi finanzia i servizi e beni pubblici. Soprattutto non si capisce perché i lavoratori dovrebbero cedere parte del proprio diritto alla retribuzione, che rientra nella sfera del rapporto di lavoro, in cambio del diritto al welfare, che invece è parte integrante dei diritti universali di un cittadino in quanto tale, indipendentemente dalla sua posizione nel mercato del lavoro.
Inoltre, una tassazione ridotta (al 10 per cento) e uguale per tutti è intrinsecamente regressiva, iniqua e in contrasto con l’articolo 53 della costituzione, secondo cui “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Un lavoratore dipendente che guadagna 20mila euro l’anno e riceve mille euro di premio produttività pagherà le stesse tasse di un collega che riceve lo stesso premio ma guadagna di base 70mila euro.
La fine dei contratti collettivi nazionali
Per capire da dove viene l’enfasi posta sui premi di produttività, spesso sbandierati come l’ennesimo taglio delle imposte a carico dei lavoratori, basta riprendere le parole della commissione Giugni del 1997 – istituita dal governo Prodi al fine di verificare il funzionamento del protocollo del 1993 che mise fine alla scala mobile: “La struttura industriale italiana necessita di maggiore adattabilità ai processi di globalizzazione, flessibilità che può essere garantita solo da una maggiore variabilità di una quota del salario”. Il mezzo più efficace per raggiungere questo obiettivo è quello di eliminare il peso della contrattazione collettiva nazionale nella determinazione del salario, così come vuole l’Europa.
Già nella famosa lettera Trichet-Draghi dell’agosto 2011 inviata al governo italiano – quella che avrebbe destituito il governo Berlusconi a favore del governo tecnico guidato da Mario Monti – si leggeva: “C’è anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione”.
Si afferma l’idea che il peso dell’adattamento, e perché no, dei sacrifici, deve ricadere unicamente sui lavoratori
Il primo passo definitivo che ha sancito la subordinazione del contratto collettivo nazionale rispetto a quello aziendale o territoriale avviene, in Italia, poche settimane dopo quella lettera. Infatti, l’articolo 8 del decreto Sacconi del settembre 2011 prevede che quanto disposto dai contratti aziendali relativamente a salario, orario di lavoro, tipologie contrattuali e mansioni, può operare “anche in deroga alle disposizioni di legge che [li] disciplinano ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro”.
Comunque la si guardi, l’idea ha poco a che vedere con la relazione privata tra datore di lavoro e lavoratore o gruppi di lavoratori e attiene, come ogni fatto economico, alla sfera collettiva. Dal lato della contrattazione e delle relazioni industriali, la posta in gioco è in definitiva la derogabilità dei contratti collettivi nazionali di lavoro (i Ccnl) per adattare, peggiorando se necessario, le condizioni di lavoro alle esigenze delle imprese.
Agire, invece, sulla defiscalizzazione e sul welfare aziendale, per incentivare l’uso di questo tipo di accordi, ha a che fare con l’intera società e la messa in discussione del ruolo dello stato e della sua funzione democratica nel definire quei diritti di cittadinanza che prescindono dallo status di lavoratore.
Indipendentemente dalla prospettiva di riferimento, tuttavia, si afferma l’idea per cui il peso dell’adattamento, e perché no, dei sacrifici, debba ricadere unicamente sui lavoratori. Il tema della produttività è ormai usato come alibi per giustificare qualsiasi forma di intervento di politica economica, omettendo i meccanismi che la definiscono.
Il mantra della produttività e la legge italiana
La produttività di un sistema dipende solo in parte dal costo del lavoro, il resto è legato invece al livello di innovazione interno ai processi di produzione e ai prodotti poi scambiati sul mercato. Allo stesso tempo, come spiegava un anno fa Innocenzo Cipolletta su lavoce.info “almeno nel breve termine, la crescita della produzione (spinta dalla domanda) favorisce la crescita della produttività”. Nel qual caso tutto l’impianto teorico su cui si regge l’attuale politica economica del governo andrebbe rivista. Quando i redditi da lavoro aumentano c’è un effetto positivo per i consumi, perché da un lato aumenta il fatturato per le imprese e dall’altro si comincia ad assorbire nuova occupazione, influenzando positivamente la produttività.
Ma, aggiungeva Cipolletta, “questo non vuol dire che si debba rinunciare a politiche per l’aumento della produttività (istruzione, innovazione, ricerca, in particolare)”. La produttività cioè dipende dagli investimenti, soprattutto in un paese come l’Italia che sconta un ritardo abissale rispetto alle economie più avanzate.
Anche se suona come un’ovvietà, il legislatore si è limitato a enunciarla sommariamente quando ha definito i parametri oggettivi da tenere in considerazione per la definizione del salario variabile, appunto quella quota di retribuzione legata alla produttività aziendale.
Secondo il testo di legge, infatti, i criteri per misurare la produttività possono consistere nell’aumento della produzione o in risparmi dei fattori produttivi: cioè migliorando la qualità dei prodotti e dei processi, anche attraverso la riorganizzazione dell’orario di lavoro non straordinario, oppure ricorrendo al lavoro agile come modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, rispetto a un periodo congruo definito dall’accordo, il cui raggiungimento sia verificabile in modo obiettivo attraverso il riscontro di indicatori numerici o di altro genere appositamente individuati.
Tuttavia, la possibilità che le misure di produttività riguardino un risparmio sul costo del lavoro appare la più ragionevole, quella più ovvia, e quella più praticata, considerando lo scarso interesse delle imprese italiane per gli investimenti, soprattutto in innovazione ricerca e sviluppo.
È evidente l’atteggiamento arrendevole delle associazioni dei lavoratori
Il modo più semplice è quello di rivedere gli orari di lavoro, per esempio attraverso l’aumento delle aperture domenicali o i notturni per il settore del commercio al dettaglio. I lavoratori dovranno allora accettare di lavorare di più o più frequentemente la domenica con un effetto netto, tra condizioni di lavoro e aumento salariale, spesso inesistente. È il caso delle grandi catene di distribuzione, per esempio Zara il cui contratto integrativo prevede un riposo domenicale per ciascun periodo di rotazione, previsto dallo stesso contratto in 4/6 settimane.
La legge così fatta, inoltre, favorisce la frammentazione e le discriminazioni nel mondo del lavoro. Secondo la legge di stabilità 2016, infatti, i premi di produttività e welfare aziendale si applicano ai lavoratori dipendenti e non anche ai percettori di redditi assimilati al lavoro dipendente (i lavoratori atipici). Ma in fin dei conti non è questo il punto dirimente del discorso.
Le nuove contrattazioni portano disuguaglianza
Fin qui, abbiamo riportato il dibattito che si è focalizzato principalmente sulle relazioni industriali: abbiamo capito che la spinta verso una maggiore decentralizzazione della contrattazione ha sferzato un brutto colpo per la centralità dell’azione sindacale e il ruolo storicamente determinante dei contratti collettivi nazionali nel riequilibrare lo sbilanciamento nei rapporti di forza non solo all’interno della singola impresa, ma anche al livello territoriale.
Questa è una deriva che, sebbene difficile da arginare in una fase storica come quella attuale, ha accolto con favore l’accordo siglato a luglio dai maggiori sindacati italiani (Cgil, Cisl e Uil) con Confindustria, che permette di estendere i premi di risultato anche nelle realtà, principalmente le piccole e medie imprese, non coperte da una rappresentanza sindacale.
Le imprese non dovranno più contrattare con i sindacati le quote di salario variabile, né i risultati da raggiungere per corrisponderli, pur nel rispetto del decreto ministeriale di riferimento. Quello che diventa evidente è l’atteggiamento arrendevole delle associazioni dei lavoratori e la rinuncia stessa agli obiettivi che dovrebbero tutt’oggi caratterizzarle. Quindi, i sindacati non solo si ritirano dal conflitto, ma sembrano disinteressarsi a una maggiore penetrazione all’interno del tessuto produttivo, sebbene si tratti in questo caso della platea ristretta dei lavoratori dipendenti.
Torna la questione meridionale
Mettendo da parte per un attimo i precari, gli outsider – che sono gli esclusi storici dai contratti collettivi nazionali –, la possibilità di derogare ai contratti collettivi nazionali di lavoro su base aziendale o territoriale spiana la strada alle cosiddette gabbie salariali e di conseguenza a una sempre maggiore divergenza tra le condizioni materiali dei lavoratori del sud e del nord Italia.
La contrazione del welfare pubblico, in contesti già svantaggiati, favorirà un ulteriore arretramento nella sfera dei diritti. La contrattazione territoriale e aziendale al sud, già debole, diventerà ancora più ostica, sia per la scarsa penetrazione del sindacato nei contesti produttivi, sia per la scarsa produttività del Mezzogiorno.
Non da ultimo al sud le rivendicazioni dei lavoratori sono già di per sé indebolite dal tasso di disoccupazione molto più elevato che al nord: ovviamente questo rende più ricattabili i lavoratori potendo far leva su un vasto esercito di riserva. Torna la questione meridionale e la tesi per cui essa non può essere delegata a un’attività privata, ma va inserita in un contesto di politica economica molto più vasto e organico.
La privatizzazione del welfare
Ma come si diceva all’inizio, il rischio per la tenuta democratica del paese riguarda in particolar modo le disuguaglianze materiali che oltre alla sfera del diritto a una remunerazione e a condizioni di lavoro dignitose, abbraccia l’intera sfera dei diritti di cittadinanza, primo tra tutti quello a uno stato sociale il cui obiettivo è già esplicitato dall’articolo 3 della costituzione:
“Compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Detassando il welfare aziendale si compie un vero e proprio ribaltamento dei princìpi costituzionali.
Il bisogno di istruzione, casa, sanità sarà definito dall’azienda
Da un lato, infatti, in un sistema basato sulla fiscalità generale, cioè sulle tasse versate dai cittadini, principalmente lavoratori, una riduzione del gettito fornisce un assist ai tagli di bilancio per sanità, istruzione, trasporti pubblici, assistenza di vario genere. Dall’altro, delegando la definizione del welfare alle imprese, si compie una vera e propria privatizzazione dello stato sociale, lasciando, quindi, un diritto di cittadinanza in balia dell’arbitrarietà e degli obiettivi delle imprese.
Se il rischio di un welfare sempre più ristretto e insufficiente ricade sull’intera collettività, saranno sempre più esclusi dalla protezione sociale coloro che dovrebbero maggiormente beneficiarne, i soggetti più vulnerabili: i precari, occupati e non, i giovani in età scolare. Venendo meno l’universalità del welfare si mina il fondamento del diritto alla protezione sociale, che scaturisce dai bisogni di singoli e gruppi. Il bisogno di istruzione, casa, sanità sarà definito domani dall’azienda. In sintesi si avalla la crescita di povertà e disuguaglianze. Un effetto regressivo che si riversa sull’intera società, generalizzando l’iniquità intrinseca della detassazione dei premi di produttività.
Non solo: l’uso di voucher per assistenza, cura, asili e sanità avrà l’effetto di far decollare un nuovo mercato – quello delle aziende che promuovono pacchetti di welfare ad hoc, gestendo dunque la richiesta proveniente dai lavoratori che dovranno spendere il proprio “buono”. Una nuova forma di agenzia interinale per il welfare. L’emersione di questo fenomeno trascina con sé altre implicazioni. È dubbia la capacità di tali agenzie di creare nuova occupazione, al massimo si potrà compensare quella in diminuzione del settore pubblico con i rischi annessi per la qualità stessa di questa occupazione.
Questa tendenza al welfare privatizzato non può lasciare i sindacati indifferenti proprio nel momento in cui sul fronte della contrattazione nel settore pubblico, al livello nazionale e territoriale, ci si batte per il rispetto di diritti minimi in un contesto già ampiamente esternalizzato, su cui è sempre più difficile rivendicare condizioni di lavoro degne, soprattutto per i lavoratori in appalto.
L’idea di spronare la produttività e quindi la crescita con la detassazione dei premi di produttività appare un ennesimo abbaglio o un camuffamento di ben altri obiettivi come la costante riduzione dei salari e del welfare a favore dei profitti aziendali. Profitti realizzati non con un rinnovato interesse per gli investimenti e l’innovazione, ma a discapito dei lavoratori e dei cittadini che vedono costantemente diminuire i loro livelli retributivi, i loro diritti dentro e fuori il mercato del lavoro, nella società.
* ricercatrice
Il saggio è stato pubblicato su Internazionale dell'8 settembre 2016
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