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30/09/2016

Hillary-Trump, scintille e menzogne

di Michele Paris

Il primo dei tre dibattiti previsti negli Stati Uniti tra Hillary Clinton e Donald Trump in vista del voto per le presidenziali dell’8 novembre prossimo è fortunatamente già andato in archivio e, come previsto, non dovrebbe avere particolari ripercussioni sulle decisioni dei potenziali elettori. Il pubblico che ha seguito la serata in diretta televisiva è stato uno dei più numerosi della storia di questi eventi, ma lo scontro tra due delle figure pubbliche più odiate d’America si è sostanzialmente risolto in una serie di accuse e attacchi reciproci che hanno confermato il livello di degrado forse senza precedenti raggiunto dal sistema politico d’oltreoceano.

Le premesse e i “contenuti” del dibattito di lunedì sera, andato in scena alla Hofstra University di Long Island, rendono di fatto inutile una qualche seria analisi dei temi affrontati. Gli stessi giornali americani che, come di consueto, si sono dedicati al “fact-checking”, ovvero alla verifica della veridicità delle affermazioni dei candidati, o hanno proclamato il “vincitore” della serata, contribuiscono in realtà ad alimentare l’illusione di una normale competizione elettorale, fondata sullo scambio di vedute e sulla discussione aperta di programmi e proposte politiche concrete.

Il primo dibattito presidenziale è stato piuttosto uno spettacolo mortificante fatto di slogan, insulti, ripetizione meccanica di affermazioni studiate a tavolino e, soprattutto, menzogne. Se nascondere la verità è uno degli esercizi più comuni della politica negli USA (e non solo) le circostanze domestiche e internazionali di questa tornata elettorale rendono ancora più grave il sostanziale silenzio su ciò che potrebbe accadere nei prossimi mesi.

In particolare, se alcune questioni di politica internazionale e legate alla “guerra al terrore” sono state toccate nel corso della discussione, nemmeno lontanamente Hillary o Trump hanno parlato alla popolazione americana della più che probabile escalation militare che Washington sta preparando attivamente, sia in Siria sia contro altri paesi rivali, come Cina, Russia o Corea del Nord.

Ad ogni modo, i giornali americani hanno più o meno concordato nel riconoscere a Trump un avvio di dibattito efficace, salvo poi finire sotto i colpi dell’ex segretario di Stato, in grado di mettere pressione a un rivale che, probabilmente, era stato consigliato dal suo staff di non eccedere nelle reazioni verbali per evitare conseguenze mediatiche negative.

Trump ha così ripetuto alcuni degli attacchi rivolti contro Hillary nei mesi scorsi, tornando ad esempio a sollevare le controversie scaturite attorno al suo stato di salute e alle e-mail personali utilizzate durante l’incarico al dipartimento di Stato. L’affondo che qualcuno si attendeva non è però arrivato e, anzi, in uno dei non pochi momenti al limite dell’assurdo della serata, Trump ha promesso una rivelazione “estremamente grave” sui coniugi Clinton per poi smentire se stesso e affermare di non poterlo fare, ufficialmente a causa della presenza nel pubblico della loro figlia, Chelsea.

Da parte di Hillary è stato invece fin troppo evidente il tentativo di utilizzare la carta del razzismo e delle discriminazioni di genere che hanno caratterizzato finora buona parte della campagna di Trump. L’appello basato sulle politiche identitarie è d’altra parte l’unica arma rimasta al Partito Democratico per dare un’immagine vagamente progressista alle politiche che lo caratterizzano, improntate all’ultra-liberismo e all’imposizione degli interessi della classe dirigente americana all’estero.

In uno dei rarissimi momenti della serata in cui si è almeno sfiorata la realtà della situazione americana, Trump ha parlato della “bolla” speculativa che rischia di far crollare nuovamente l’economia non appena “la Fed[eral Reserve] alzerà i tassi di interesse”. Ugualmente, è stato il miliardario di New York a cercare di smontare la fissazione di Hillary e dei Democratici per il coinvolgimento del governo russo nelle recenti violazioni dei sistemi informatici del partito.

La questione era stata toccata dalla Clinton per condannare le presunte simpatie di Trump per Putin. Il candidato Repubblicano si è tuttavia ben guardato dall’allargare la discussione ai piani di guerra contro Mosca, allo studio di quello stesso apparato militare americano che Trump corteggia da tempo.

La totale assenza di sostanza nel dibattito presidenziale di lunedì è da riferire in larga misura alla natura stessa dei due candidati e alle dinamiche che li hanno portati a un passo dalla Casa Bianca. Hillary Clinton e Donald Trump sono cioè l’espressione rispettivamente di un ambiente politico e un’élite economico-finanziaria con caratteri ben precisi, che sono il risultato di decenni di promozione di forze ultra-reazionarie.

Se Trump rappresenta una classe di multi-miliardari arricchitisi grazie a inganni, evasione fiscale, agganci politici e sfruttamento di lavoratori sottopagati, la Clinton è invece l’espressione di una classe politica non meno criminale, che ha costruito la propria carriera appoggiando guerre rovinose all’estero e lo smantellamento delle protezioni sociali garantite alle classi più deboli.

Da un’offerta di questo genere, è evidente che nulla potrà uscire di positivo dal voto di novembre e iniziative come il dibattito di questa settimana non sono che esercizi di poca o nessuna utilità per rassicurare gli elettori circa la salute di un sistema democratico che è in realtà al collasso.

Una vittoria di Hillary Clinton avvicinerebbe con ogni probabilità gli USA a un conflitto dalle conseguenze incalcolabili con una potenza nucleare. Trump, la cui clamorosa ascesa politica è dovuta quasi del tutto alla capacità di cavalcare le frustrazioni degli americani più colpiti dalla devastazione economica di questi anni, se pure promette una politica estera meno aggressiva e la salvaguardia di alcuni programmi sociali, non offre ricette alternative alla rimozione di qualsiasi ostacolo alle operazioni del business americano.

Chiunque sia a trarre eventualmente vantaggio dai tre dibattiti in programma fino al voto di novembre e a entrare alla Casa Bianca a gennaio, la prossima amministrazione promette dunque fin da ora di diventare precocemente la più reazionaria della già non edificante storia recente degli Stati Uniti d’America.

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