di Michele Paris
Il primo dei tre dibattiti previsti negli Stati Uniti tra Hillary
Clinton e Donald Trump in vista del voto per le presidenziali dell’8
novembre prossimo è fortunatamente già andato in archivio e, come
previsto, non dovrebbe avere particolari ripercussioni sulle decisioni
dei potenziali elettori. Il pubblico che ha seguito la serata in diretta
televisiva è stato uno dei più numerosi della storia di questi eventi,
ma lo scontro tra due delle figure pubbliche più odiate d’America si è
sostanzialmente risolto in una serie di accuse e attacchi reciproci che
hanno confermato il livello di degrado forse senza precedenti raggiunto
dal sistema politico d’oltreoceano.
Le premesse e i “contenuti”
del dibattito di lunedì sera, andato in scena alla Hofstra University di
Long Island, rendono di fatto inutile una qualche seria analisi dei
temi affrontati. Gli stessi giornali americani che, come di consueto, si
sono dedicati al “fact-checking”, ovvero alla verifica della veridicità
delle affermazioni dei candidati, o hanno proclamato il “vincitore”
della serata, contribuiscono in realtà ad alimentare l’illusione di una
normale competizione elettorale, fondata sullo scambio di vedute e sulla
discussione aperta di programmi e proposte politiche concrete.
Il
primo dibattito presidenziale è stato piuttosto uno spettacolo
mortificante fatto di slogan, insulti, ripetizione meccanica di
affermazioni studiate a tavolino e, soprattutto, menzogne. Se nascondere
la verità è uno degli esercizi più comuni della politica negli USA (e
non solo) le circostanze domestiche e internazionali di questa tornata
elettorale rendono ancora più grave il sostanziale silenzio su ciò che
potrebbe accadere nei prossimi mesi.
In particolare, se alcune
questioni di politica internazionale e legate alla “guerra al terrore”
sono state toccate nel corso della discussione, nemmeno lontanamente
Hillary o Trump hanno parlato alla popolazione americana della più che
probabile escalation militare che Washington sta preparando attivamente,
sia in Siria sia contro altri paesi rivali, come Cina, Russia o Corea
del Nord.
Ad ogni modo, i giornali americani hanno più o meno
concordato nel riconoscere a Trump un avvio di dibattito efficace, salvo
poi finire sotto i colpi dell’ex segretario di Stato, in grado di
mettere pressione a un rivale che, probabilmente, era stato consigliato
dal suo staff di non eccedere nelle reazioni verbali per evitare
conseguenze mediatiche negative.
Trump ha così ripetuto alcuni
degli attacchi rivolti contro Hillary nei mesi scorsi, tornando ad
esempio a sollevare le controversie scaturite attorno al suo stato di
salute e alle e-mail personali utilizzate durante l’incarico al
dipartimento di Stato. L’affondo che qualcuno si attendeva non è però
arrivato e, anzi, in uno dei non pochi momenti al limite dell’assurdo
della serata, Trump ha promesso una rivelazione “estremamente grave” sui
coniugi Clinton per poi smentire se stesso e affermare di non poterlo
fare, ufficialmente a causa della presenza nel pubblico della loro
figlia, Chelsea.
Da
parte di Hillary è stato invece fin troppo evidente il tentativo di
utilizzare la carta del razzismo e delle discriminazioni di genere che
hanno caratterizzato finora buona parte della campagna di Trump.
L’appello basato sulle politiche identitarie è d’altra parte l’unica
arma rimasta al Partito Democratico per dare un’immagine vagamente
progressista alle politiche che lo caratterizzano, improntate
all’ultra-liberismo e all’imposizione degli interessi della classe
dirigente americana all’estero.
In uno dei rarissimi momenti
della serata in cui si è almeno sfiorata la realtà della situazione
americana, Trump ha parlato della “bolla” speculativa che rischia di far
crollare nuovamente l’economia non appena “la Fed[eral Reserve] alzerà i
tassi di interesse”. Ugualmente, è stato il miliardario di New York a
cercare di smontare la fissazione di Hillary e dei Democratici per il
coinvolgimento del governo russo nelle recenti violazioni dei sistemi
informatici del partito.
La questione era stata toccata dalla
Clinton per condannare le presunte simpatie di Trump per Putin. Il
candidato Repubblicano si è tuttavia ben guardato dall’allargare la
discussione ai piani di guerra contro Mosca, allo studio di quello
stesso apparato militare americano che Trump corteggia da tempo.
La
totale assenza di sostanza nel dibattito presidenziale di lunedì è da
riferire in larga misura alla natura stessa dei due candidati e alle
dinamiche che li hanno portati a un passo dalla Casa Bianca. Hillary
Clinton e Donald Trump sono cioè l’espressione rispettivamente di un
ambiente politico e un’élite economico-finanziaria con caratteri ben
precisi, che sono il risultato di decenni di promozione di forze
ultra-reazionarie.
Se Trump rappresenta una classe di
multi-miliardari arricchitisi grazie a inganni, evasione fiscale,
agganci politici e sfruttamento di lavoratori sottopagati, la Clinton è
invece l’espressione di una classe politica non meno criminale, che ha
costruito la propria carriera appoggiando guerre rovinose all’estero e
lo smantellamento delle protezioni sociali garantite alle classi più
deboli.
Da un’offerta di questo genere, è evidente che nulla
potrà uscire di positivo dal voto di novembre e iniziative come il
dibattito di questa settimana non sono che esercizi di poca o nessuna
utilità per rassicurare gli elettori circa la salute di un sistema
democratico che è in realtà al collasso.
Una
vittoria di Hillary Clinton avvicinerebbe con ogni probabilità gli USA a
un conflitto dalle conseguenze incalcolabili con una potenza nucleare.
Trump, la cui clamorosa ascesa politica è dovuta quasi del tutto alla
capacità di cavalcare le frustrazioni degli americani più colpiti dalla
devastazione economica di questi anni, se pure promette una politica
estera meno aggressiva e la salvaguardia di alcuni programmi sociali,
non offre ricette alternative alla rimozione di qualsiasi ostacolo alle
operazioni del business americano.
Chiunque sia a trarre
eventualmente vantaggio dai tre dibattiti in programma fino al voto di
novembre e a entrare alla Casa Bianca a gennaio, la prossima
amministrazione promette dunque fin da ora di diventare precocemente la
più reazionaria della già non edificante storia recente degli Stati
Uniti d’America.
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