La guerra si fa in molti modi, ormai. E il più efficace sembra ancora quello finanziario. Vuoi far fuori qualche leader che non ti obbedisce pienamente? Muovi la finanza, anche se sempre più spesso possiamo verificare il contrario: è il capitale multinazionale a muovere la politica, non viceversa.
Erdogan è sopravvissuto al tentato golpe di luglio portando a termine un controgolpe da manuale. Una epurazione di massa dagli apparti dello Stato, concentrata sui seguaci di Gulen – riparato da anni negli Usa – e soprattutto sulla sinistra turca e curda.
Nel realizzare questa “pulizia politica”, e anche parecchio etnica, ha superato molti livelli di soglia oltre cui si usa dire di un regime che è un regime dittatoriale, antidemocratico, ecc. I governi – specie quelli europei, che avevano appena firmato un accordo con cui la Turchia di Erdogan si accollava tutti i profughi in fuga dalla Siria in cambio di 6 miliardi di euro – hanno messo il silenziatore alle critiche. Giornalisti arrestati? Giornali, tv e radio chiuse? Avvocati imprigionati? Torture e arresti di massa? Eccidio ripetuto e continuato nei confronti della popolazione curda? Non fa niente, meglio non sfruculiare...
Gli Stati Uniti, palesemente implicati nel fallito golpe (gli aerei golpisti erano partiti dalla base di Incirlik, sotto controllo Nato...), hanno meno problemi e maggiore distanza dai flussi di profughi potenziali. E la finanza targata Usa, comincia ora a mettere sotto pressione l'ex fedele alleato turco.
L'agenzia americana Moody's ha tagliato il rating del credito sovrano della Turchia a “junk”, cioè “spazzatura”, citando preoccupazioni per lo stato di diritto, dopo il fallito colpo di stato di luglio scorso e rischi da un rallentamento dell'economia, una decisione che potrebbe scoraggiare gli investitori internazionali. Non è la prima volta che valutazioni politiche entrano nel ventaglio di fattori considerati da un'agenzia di rating per emettere il suo voto su un paese, ma è certo singolare che ci si preoccupi per la sorte dello “stato di diritto” mentre si danno voti eccellenti ad Arabia Saudita e i vari staterelli petroliferi del Golfo, retti da monarchie che definire oscurantiste è far loro un complimento.
Il rating di un paese è determinante per i flussi di capitali. Se il voto è basso – e qui è stato abbassato di due punti in un colpo solo, come avviene in genere solo per un crack finanziario di portata sistemica – i capitali vengono di fatto scoraggiati dall'investire in quel paese o invogliati ad andarsene altrove. E per un paese come la Turchia – che deve finanziare il deficit import/export più alto tra i membri del G20 – questo può essere un colpo durissimo. Basta pensare al “servizio sul debito”, ovvero i tassi di interesse reali da garantire a chi compra titoli di debito turchi.
Il primo ministro turco, Binali Yildirim, ha subito inquadrato la decisione di Moody's come un atto politico, non freddamente economico: «Non crediamo che queste valutazioni siano molto imparziali. Crediamo che stanno cercando di creare una certa percezione dell'economia turca».
Tanto più che Moody's arriva dopo Standard&Poor's, a conferma di un cambio di atteggiamento generale del capitale di “matrice” anglosassone nei confronti di Istanbul.
Le mosse a disposizione di Erdogan non sono molte. Potrebbe far alzare i tassi di interesse alla banca centrale, per invogliare di più gli investimenti esteri. Ma si tratterebbe di una mossa probabilmente fatale per l'economia del paese. Non a caso, nei giorni scorsi, la banca centrale turca aveva fatto l'esatto opposto, tagliando i tassi.
È guerra, appunto. Solo con altre armi...
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