La mia generazione è un film di vent’anni fa ma ancora
capace di raccontare il senso di dignità e sconfitta degli anni
Settanta. E’ per questo che oggi ne consigliamo la visione, perché non
solo non è invecchiato, ma al contrario, di fronte alla rimozione
ideologica di questi anni, in grado di dare voce a un pezzo di quella
generazione che non ha avuto successivamente alcuna riabilitazione mainstream. La
storia è essenziale: il detenuto politico Braccio (Claudio Amendola),
da tempo in rotta coi suoi compagni tanto in carcere quanto fuori, viene
trasferito da un carcere del sud a Milano per una serie di colloqui con
la sua ragazza (siamo nel 1983). Il trasferimento è però una
messinscena organizzata dal Tribunale, con l’obiettivo di far pentire
Braccio, promettendogli la fine della carcerazione speciale, la
riduzione della pena, il trasferimento definitivo vicino alla sua
ragazza, eccetera. Una serie di premi in cambio del pentimento. Il
Capitano dei carabinieri (Silvio Orlando), assume subito un
atteggiamento paternalista ed empatico col detenuto, si presenta insomma
come il classico “poliziotto buono”, ma l’atteggiamento confidenziale
termina drasticamente nel momento in cui Braccio decide di non pentirsi,
scegliendo di non tradire e perdendo così ogni possibilità di rivedere
la ragazza e di vedersi ridurre i trent’anni di detenzione ancora da
scontare. Alle porte di Milano il cellulare dei Carabinieri inverte la
rotta e torna in Sicilia, mettendo fine a ogni possibilità di ritorno
alla vita di Braccio.
Nel film regna la disillusione, tanto politica, simboleggiata da
Braccio, quanto quella lavorativa ed esistenziale rappresentata dal
Capitano dei carabinieri. E’ un’Italia sconfitta quella che risale la
penisola sul furgone blindato dei carabinieri. La fine della lotta
armata, che per sineddoche descrive la fine del movimento rivoluzionario
degli anni Settanta, porta con sé anche l’altra parte della barricata,
quell’Italia legata allo Stato e alle sue istituzioni da difendere.
Senza più idee né ideali il prezzo della sconfitta è la totale
rassegnazione all’esistente, una rassegnazione che travolge tutti gli
attori in campo e di cui oggi se ne vedono chiaramente i frutti maturi.
Ovviamente non è la sconfitta dello Stato, ma delle sue pedine
incoscienti, dei suoi piccoli servitori, dei convinti ad una causa più
per tornaconto che per ideale. Ci sono però diversi modi per fare fronte
alla distruzione di ogni orizzonte collettivo. Anche venuta meno la
convinzione di ciò in cui si credeva, rimane la dignità umana, quella
dignità calpestata, derisa, minimizzata, che dagli anni Ottanta è
divenuta l’unica verità ufficiale e ufficiosa dell’Italia finalmente
libera dalla politica e dallo scontro di classe. Una verità che nel
tempo ha recuperato e re-integrato pezzi di quella sinistra e di quel
movimento, ma che ha tenuto fuori chi ne era decisamente incompatibile.
E’ per questo che la dignità con cui Braccio-Amendola fa fronte alla sua
sconfitta e all’idea di altri trent’anni di carcere prova a riscattare
le ragioni di una “generazione perduta” e che, neanche trentenne, era
già condannata a sopravvivere senza umanità il resto della propria vita.
Molti non hanno resistito e alla fine quei nomi li hanno fatti o, meno
direttamente, si sono dissociati da un’esperienza chiudendo malamente un
capitolo della loro vita. Altri hanno seguito la strada della dignità.
Una strada tragica, difficile, triste. Ma l’unica scelta umana
possibile. Passati quasi quarant’anni non dubitiamo che questi siano gli
unici che, nel silenzio della sera, prima di addormentarsi, nella
solitudine dei propri pensieri, riescano ancora a dormire con quella
serenità impossibile a chi non ha avuto lo stesso coraggio.
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