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10/09/2016

Napolitano e il referendum. La trappola del “merito” e “abbassiamo i toni”

Giorgio Napolitano, corrente destra “migliorista” dell’antico PCI, ha concesso una lunga intervista al direttore di Repubblica: al centro il referendum sulle deformazioni costituzionali di cui non si conosce ancora la data.

Napolitano, con il solito tono da “uomo delle istituzioni” che nasconde il suo passato da uomo di partito, esorta ad entrare nel “merito” e ad “abbassare i toni”, inoltre pur non riconoscendo il combinato disposto tra deforme costituzionali e legge elettorale propone la modifica dell’Italikum nel senso dell’affrontare il tema del premio di maggioranza, scoprendo l’acqua calda del rischio di un partito che non arriva al 40% dei voti validi e si pappa la maggioranza assoluta della Camera.

Naturalmente nessun accenno, nella smania di governabilità che ha sempre contraddistinto la sua azione politica, che in ogni caso quel 40% (nel caso ci fosse) rappresenterebbe più o meno il 25% del corpo elettorale, considerato l’alto tasso di astensionismo.

Alto tasso di astensionismo che non viene neppure preso in considerazione, in altra parte dello stesso giornale, dall’analisi svolta dalla Demos di Ilvo Diamanti che, senza tener conto di questo dato fondamentale, assegna percentuali del tutto virtuali ai vari partiti e – riferendo delle previsioni referendarie – scrive del 30% d'indecisi, senza precisare che quanti sono intenzionati a partecipare al voto rappresentano all’incirca il 50% dell’intero corpo elettorale.

Si tratta di un dato, invece, molto significativo che rappresenta l’indicatore di un malessere sistemico diffuso che, naturalmente, lo stesso Napolitano ignora tutto preso com’è dalla sindrome dell’autoreferenzialità delle istituzioni, intese davvero in questo caso in una dimensione di “regime”.

Rifarsi al “merito” e chiedere di ”abbassare i toni” rappresentano due aspetti di un’abusata trappola che chi, almeno a sinistra, intende rappresentare il “NO” nel referendum, deve assolutamente evitare.

L’abbassare i toni non può rappresentare un mutamento di livello dello scontro perché si tratta di valutare davvero su quale argomento ci si confronta in quest’occasione tra il SI e il NO, mentre il merito va ben oltre i pur sacrosanti argomenti del bicameralismo che passa, inevitabilmente, da “perfetto” a “confuso”, attraverso una classica stesura da “complicazione affari semplici” nel testo.

In gioco c’è ben altro: la sostanza della democrazia repubblicana.

I toni non possono essere forzatamente abbassati per far piacere a chi dà fastidio il rumore delle manifestazioni di massa (a Napolitano non sono mai piaciute) quando la posta in palio è l’essenza della Costituzione nella sua parte che riguarda la forma dello Stato prima ancora che quella di governo.

L’Assemblea Costituente scelse infatti la forma parlamentare della Repubblica e il soggetto “partito” come elemento di sostegno e di raccolta del consenso: una formula riuscita perfettamente per decenni, al punto che la partecipazione al voto superò sempre, tra il 1948 e il 1987, il 90% ed i grandi partiti di massa rappresentavano il 70% dei voti validi, mentre il sistema elettorale (non iscritto nella Costituzione, ma assolutamente coerente con la sua filosofia di fondo della forma parlamentare) garantiva la presenza istituzionale delle principali correnti di pensiero politico presenti nel paese sul versante della sinistra, delle forze laiche e della destra.

L’irrompere sulla scena della forma politica basata sull’individualismo competitivo, il privilegio della governabilità della rappresentanza, l’autoreferenzialità del sistema rispetto al rifermento alle classi sociali ha stravolto questo quadro e portato alla drammatica situazione di oggi sino a far pensare di stravolgere l’impianto Costituzionale in funzione di una “vocazione maggioritaria” di governo fondata su forze politiche basate su di un proprio pericoloso auto centrismo sintetizzato nella personalizzazione della politica.

Nascono così i pericoli che questa proposta di deformazione costituzionale presenta proprio sotto l’aspetto della qualità della democrazia.

La conferma, attraverso il NO nel referendum, dell’impianto complessivo della Costituzione del ’48 sotto l’aspetto della forma di stato e della forma di governo, negando il presidenzialismo di fatto e riportando al centro la democrazia parlamentare, potrà così rappresentare l’avvio di una fase nuova dopo quella pericolosa che abbiamo attraversato a partire dalla modifica delle leggi elettorali nel ’93 e dell’affermazione del personalismo e delle idee maggioritarie.

L’occasione vera (altro che “occasione perduta”) per rilanciare la democrazia.

Una parola, infine, sul trasformismo soggettivo di Giorgio Napolitano.

Non equivochiamo, per favore, la corrente migliorista era tutt’altro che quella vicina al socialismo europeo (che rappresentava un “refrain” buono per i comizi).

L’idea di fondo era invece quella della concentrazione del potere, il vero punto sul quale la corrente si distinse dopo la cessione della leadership da Amendola proprio a Napolitano, in una dimensione appunto di tipo correntizio in funzione dell’esercizio del potere all’interno del PCI, prima di tutto.

Il punto vero di distinzione dei miglioristi era appunto quello della concezione del potere, simbolicamente e praticamente espresso all’interno del Partito nella logica del centralismo democratico: come si vedrà bene, qualche anno dopo all’indomani dell’invasione della Cecoslovacchia, attraverso il processo di esclusione dal PCI del gruppo del “Manifesto” (casus belli la pubblicazione di una rivista autonoma sulla quale Lucio Magri scrisse il famoso articolo “Praga è sola”).

Who is Giorgio Napolitano?

Per capirlo meglio chiuderò questo intervento con una citazione.

Scrive Luciano Barca “Cronache dall’interno del vertice del PCI” volume primo Togliatti e Longo Rubettino Editore, Soveria Mannelli 2005, pagina 168.

Il quadro è quello dell’VIII congresso del PCI, Roma dicembre 1956, all’indomani dell’invasione sovietica dell’Ungheria e del XX congresso, quello della destalinizzazione kruscioviana.

Antonio Giolitti interviene al Congresso portando una posizione critica rispetto all’analisi giustificazionista che la segreteria del PCI ha fin lì portato avanti circa l’azione sovietica (le cose stanno in maniera molto più complessa, naturalmente, ma il senso complessivo di quel momento storico può essere ben così riassunto).

Scrive dunque Barca:
“Giolitti nel complesso svolge un discorso ben costruito con un avvio modesto e concreto legato alle esperienze del cuneese, un forte richiamo a Gramsci e, collegando a Diaz (Furio Diaz, intervento precedente, n.d.r.), ma andando oltre, con un forte attacco alla “doppiezza” cui lo stesso Togliatti aveva accennato.

La doppiezza di cui parla Giolitti è quella di chi da una parte riafferma il valore permanente delle libertà democratiche e dall’altra scrive che gli errori e i delitti denunciati al XX congresso non hanno intaccato la permanente sostanza democratica del potere socialista (Giolitti precisa: “dico potere e non sistema”) e che il governo di Budapest è legittimo.

L’intervento è ascoltato con silenziosa attenzione e alla fine salutato dagli applausi di una maggioranza di congressisti.

La curiosità si sposta ora sul compagno cui, secondo la prassi del centralismo democratico, sarà affidato il compito di replicare a Giolitti.

Si fanno parlare alla tribuna i rituali tre compagni che nessuno segue e poi sale alla tribuna Giorgio Napolitano.

Bastano le prime parole del suo intervento (“La migliore prova della libertà che c’è nel partito è che Antonio Giolitti abbia potuto esprimere il suo dissenso”) per capire che il designato del “centro” è lui.

Del resto non è nuovo al compito.

Lo ha già assolto a Napoli contro La Piccirella.

Anche questa volta non ci va leggero. Ritorce su Giolitti l’accusa di doppiezza per dirgli che senza tante ipocrisie avrebbe fatto meglio a dire chiaramente ciò che pensa e che cioè l’intervento sovietico si giustifica soltanto dal punto di vista delle esigenze militari e strategiche dell’Unione Sovietica.

Fortunatamente per l’onore del Partito non riceve applausi.

Incredulità per l’intervento di Amendola che conclude il suo discorso contro il riformismo liquidatore e il massimalismo inneggiando ai partiti comunisti che sono al potere in tanta parte del mondo e “prima di tutto al glorioso Partito Comunista dell’Unione Sovietica”.

A scegliere Napolitano deve essere stato proprio lui”.
Fin qui Luciano Barca. Commento redazionale: Killer venuti dal freddo.

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