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13/10/2016

Iraq - Mosul nel mirino di Erdogan

“Resta al tuo posto”: le parole pronunciate ieri dal presidente turco Erdogan e destinate al premier iracheno al-Abadi infiammano le tensioni tra i due paesi, mai così tese da anni. Ieri durante il nono Consiglio Islamico Euroasiatico a Istanbul, Erdogan ha lanciato il guanto di sfida al governo centrale di Baghdad: “Lui [al-Abadi] dice ‘ritiratevi’. L’esercito della Repubblica di Turchia non ha perso il senno da prendere ordini da te. Non sei il mio interlocutore, non sei al mio livello. Chi sei? Il premier iracheno. Stai al tuo posto”.

Motivo delle tensioni è la presenza delle truppe turche (500 uomini dei duemila presenti in totale in Iraq) nella base di Bashiqa, a soli 12 chilometri da Mosul, dove da quasi un anno l’esercito di Ankara sta addestrando i combattenti peshmerga. C’è, ovviamente di più: da Bashiqa Erdogan prepara la partecipazione alla battaglia per Mosul, seconda città irachena dal giugno 2014 in mano allo Stato Islamico. Il presidente turco lo dice con chiarezza: nessuno può tagliarci fuori dall’operazione.
Perché in ballo c’è molto: il ruolo turco nel nuovo Medio Oriente che si sta ridisegnando. Ankara vuole un vicino debole e controllabile, come è nella mente degli alleati occidentali, un paese diviso in entità amministrative su basi settarie nel quale la Turchia possa godere a pieno dei rapporti stretti con il Kurdistan iracheno.
Baghdad, alla palese sfida, non poteva non reagire: dopo aver definito la Turchia “forza occupante” e aver chiesto la scorsa settimana l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, al-Abadi ha risposto con un tweet. “Libereremo la nostra terra con la determinazione dei nostri uomini e non con videochiamate”, ha scritto con un chiaro riferimento all’apparizione su FaceTime che Erdogan fece la notte del tentato golpe del 15 luglio quando fece appello alla popolazione turca perché fermasse i golpisti.

Ad Ankara importa poco, forte del silenzio internazionale sull’invasione turca del nord Iraq e delle bombe che da un anno e mezzo piovono sulle montagne di Qandil, dove si nascondono gli uomini del Pkk. Questa mattina il vice premier Kurtumulus ha ribadito l’intenzione di mantenere le truppe a Bashiqa e la partecipazione alla battaglia finale per Mosul.

E quella battaglia si avvicina. La scorsa settimana fonti governative irachene indicavano nella fine di ottobre la data possibile del lancio della controffensiva tanto attesa. Ieri altri reggimenti dell’esercito sono arrivati a sud est della città, a 25 km di distanza dal centro. Si posizioneranno, dice il colonnello al-Daraji, sulla linea orientale e vicino alla diga di Mosul. Sono arrivati rinforzi anche alle potenti milizie sciite che Stati Uniti e Turchia vorrebbero escludere dall’offensiva: nella città kurda di Shekhan, nei pressi di Mosul, ieri notte sono stati dispiegati miliziani armati delle Unità di Mobilitazione Popolare. Si occuperanno di coprire l’avanzata dalla diga di Mosul, a nord ovest della città.

Lo Stato Islamico è sotto pressione e lo dimostrano le attività preparatorie registrate in città: gli islamisti hanno già circondato Mosul di campi minati e trincee, hanno scavato tunnel e posizionato i cecchini e nelle ultime ore hanno incrementato le difese, arrivando – dicono fonti irachene e statunitensi – a usare bambini come spie e a rasarsi le barbe per non essere riconosciuti nel caso di ingresso dell’esercito governativo.

Nonostante le pressioni, però, l’Isis non cede: perde terreno, ma non capacità di attacco. Gli attentati nelle zone non occupate si moltiplicano, l’ultimo ieri con un morto e otto feriti in un mercato a Daham al-Mahmoud, a ovest della capitale. L’obiettivo è dimostrare l’incapacità del governo a garantire la sicurezza, soprattutto nelle città sciite, generare l’instabilità necessaria ad accendere i già gravi settarismi interni convincendo gli sciiti di fantomatiche responsabilità sunnite. Una strategia che è militare ma anche politica e che ad oggi le forze irachene non sono in grado di frenare.

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