“Resta al tuo posto”: le parole pronunciate ieri dal presidente turco
Erdogan e destinate al premier iracheno al-Abadi infiammano le tensioni
tra i due paesi, mai così tese da anni. Ieri durante il nono Consiglio
Islamico Euroasiatico a Istanbul, Erdogan ha lanciato il guanto di sfida
al governo centrale di Baghdad: “Lui [al-Abadi] dice
‘ritiratevi’. L’esercito della Repubblica di Turchia non ha perso il
senno da prendere ordini da te. Non sei il mio interlocutore, non sei al
mio livello. Chi sei? Il premier iracheno. Stai al tuo posto”.
Motivo delle tensioni è la presenza delle truppe turche (500 uomini
dei duemila presenti in totale in Iraq) nella base di Bashiqa, a soli 12
chilometri da Mosul, dove da quasi un anno l’esercito di Ankara sta
addestrando i combattenti peshmerga. C’è, ovviamente di più: da
Bashiqa Erdogan prepara la partecipazione alla battaglia per Mosul,
seconda città irachena dal giugno 2014 in mano allo Stato Islamico. Il
presidente turco lo dice con chiarezza: nessuno può tagliarci fuori
dall’operazione.
Perché in ballo c’è molto: il ruolo turco nel nuovo Medio Oriente che si sta ridisegnando. Ankara
vuole un vicino debole e controllabile, come è nella mente degli
alleati occidentali, un paese diviso in entità amministrative su basi
settarie nel quale la Turchia possa godere a pieno dei rapporti stretti
con il Kurdistan iracheno.
Baghdad, alla palese sfida, non poteva non reagire: dopo aver
definito la Turchia “forza occupante” e aver chiesto la scorsa settimana
l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, al-Abadi ha risposto
con un tweet. “Libereremo la nostra terra con la determinazione dei
nostri uomini e non con videochiamate”, ha scritto con un chiaro
riferimento all’apparizione su FaceTime che Erdogan fece la notte del
tentato golpe del 15 luglio quando fece appello alla popolazione turca
perché fermasse i golpisti.
Ad Ankara importa poco, forte del silenzio internazionale
sull’invasione turca del nord Iraq e delle bombe che da un anno e mezzo
piovono sulle montagne di Qandil, dove si nascondono gli uomini del Pkk.
Questa mattina il vice premier Kurtumulus ha ribadito l’intenzione di
mantenere le truppe a Bashiqa e la partecipazione alla battaglia finale
per Mosul.
E quella battaglia si avvicina. La scorsa settimana fonti
governative irachene indicavano nella fine di ottobre la data possibile
del lancio della controffensiva tanto attesa. Ieri altri reggimenti
dell’esercito sono arrivati a sud est della città, a 25 km di distanza
dal centro. Si posizioneranno, dice il colonnello al-Daraji,
sulla linea orientale e vicino alla diga di Mosul. Sono arrivati
rinforzi anche alle potenti milizie sciite che Stati Uniti e Turchia
vorrebbero escludere dall’offensiva: nella città kurda di Shekhan, nei
pressi di Mosul, ieri notte sono stati dispiegati miliziani armati delle
Unità di Mobilitazione Popolare. Si occuperanno di coprire l’avanzata
dalla diga di Mosul, a nord ovest della città.
Lo Stato Islamico è sotto pressione e lo dimostrano le
attività preparatorie registrate in città: gli islamisti hanno già
circondato Mosul di campi minati e trincee, hanno scavato tunnel e
posizionato i cecchini e nelle ultime ore hanno incrementato le difese,
arrivando – dicono fonti irachene e statunitensi – a usare bambini come
spie e a rasarsi le barbe per non essere riconosciuti nel caso di
ingresso dell’esercito governativo.
Nonostante le pressioni, però, l’Isis non cede: perde terreno, ma non capacità di attacco. Gli
attentati nelle zone non occupate si moltiplicano, l’ultimo ieri con un
morto e otto feriti in un mercato a Daham al-Mahmoud, a ovest della
capitale. L’obiettivo è dimostrare l’incapacità del governo a garantire
la sicurezza, soprattutto nelle città sciite, generare l’instabilità
necessaria ad accendere i già gravi settarismi interni
convincendo gli sciiti di fantomatiche responsabilità sunnite. Una
strategia che è militare ma anche politica e che ad oggi le forze
irachene non sono in grado di frenare.
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