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10/04/2017

Caos M5S a Genova, il candidato viene “scelto” dal giudice

L’abisso senza fondo della politichetta italiana ha prodotto l’ultimo mostriciattolo geneticamente modificato. Il giudice Roberto Braccialini ha sospeso l'esclusione della lista di Marika Cassimatis, la candidata del Movimento 5 stelle vincitrice delle Comunarie per la candidatura a sindaco di Genova, poi sfiduciata da Beppe Grillo che ha imposto una nuova tornata di votazioni online aperte a tutti gli iscritti in Italia.

Nell’immediato, il pasticcio è divertente. La Cassimatis è ora teoricamente il candidato dei Cinque Stelle a Genova, che però non la vogliono e potrebbero negarle l’uso del simbolo (che è poi l’unica ragione per cui dei perfetti sconosciuti al grande pubblico possono ricevere voti ed essere eletti). L’altro “ripescato” al secondo giro di “comunarie”, Luca Pirondini, potrebbe essere escluso dalla corsa alla carica di sindaco, oppure costretto a presentarsi – anche lui – senza la protezione del brand.

Il divertimento finisce qui.

A noi sembra abbastanza chiaro che una simile follia sia il prodotto di due anomalie che solo la “furberia” della classe politica di questo paese è stata capace di partorire. La prima, e più antica, è quella per cui il dettato costituzionale sulla “forma partito” non è mai stato concretizzato in leggi e regolamenti. La Costituzione recita infatti: “Articolo 49. Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Libertà assoluta, così come per le organizzazioni sindacali, che però rinviava alla necessità di definire per legge cosa dovesse essere un partito, quali prerogative, quali verifiche democratiche interne. Il come, in sostanza, non è mai separabile dal cosa.

Com’è noto, invece, ogni partito presente sulla scena ha preferito tenersi le “mani libere”, aggirando qualsiasi ipotesi di regolamentazione che potesse limitare il dispotismo dei capi temporanei; limitandosi così ad una “autoregolamentazione” affidata a statuti interni, regole di appartenenza ed esclusione, poteri di nomina e revoca, collegi dei probiviri, ecc.

Tutto è andato relativamente bene fin quando i partiti sono stati organizzazioni relativamente serie, ovvero effettivamente libere associazioni di uomini e donne che condividevano idee, ideologie, programmi, interessi e dunque anche regole per stare insieme. La “seconda Repubblica” ha visto lo spappolamento – grazie anche all’ubriacatura del “sistema maggioritario” – di quelle formazioni, ridotte ad aggregati casuali di clientele legate a gruppi di interesse e capibastone in perenne lotta reciproca. Oppure a “partiti-azienda” con un capo assoluto e tanti nanerottoli starnazzanti, in competizione per un posto a corte.

La seconda “furbata” – sfruttando il vuoto legislativo – è invece tutta farina del sacco del duo Grillo-Casaleggio, che hanno inventato una forma partito-movimento che si regge sul controllo ferreo di una piattaforma informatica che rappresenta “il marchio” (l’unica cosa che conta) e forme di selezione dei “gruppi dirigenti” alquanto casuali (come si è visto con la prima seria infornata di parlamentari pentastellati e ancor più chiaramente con le sofferenze di quasi tutte le amministrazioni comunali conquistate).

Poteri del “garante” superstite e partecipazione democratica degli iscritti si sono così venuti a trovare su una rotta di collisione continua, con ovvia prevalenza del primo (il marchio è tutto, i singoli non contano nulla). Come in tutti i “vecchi partiti”, a ben vedere (non si poteva essere riconosciuti come democristiani o comunisti fuori dai relativi partiti, a insindacabile giudizio dei gruppi dirigenti); paradossalmente con qualche garanzia in più prevista dai partiti “classici”.

Alla fine della fiera, l’aspetto più assurdo – sul piano strettamente politico – è nel fatto che un giudice sia chiamato ad intervenire per decidere chi, tra i vari candidati di una “libera associazione” abbia “diritto” a rappresentare l’insieme dell’associazione; anche in contrasto con la volontà dell’associazione stessa (del suo “garante” o della maggioranza, in questo caso non fa differenza).

Come a dire che “l’associazione politica” non è più totalmente libera, ma sottoposta a un controllo esterno non regolato da nessuna legge (l’articolo 49 della Costituzione non prescrive nulla, se non la libertà). A rischio finisce lo stesso concetto di rappresentanza politica.

Non sappiamo se il giudice e i “grillini” se ne siano resi conto. Ma il problema è parecchio serio.

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