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15/09/2017

Intervista con Alvaro Garcia Linera: “Prima bisogna vincere nel senso comune della gente”.


Pubblichiamo questa lunga intervista di Pablo Iglesias con il Vicepresidente della Bolivia, Alvaro García Linera nella nota trasmissione “Otra vuelta de tuerka”. Un’intervista con molte idee e contributi per chi osa guardare, vedere e modificare la realtà. Un viaggio tra esperienze rivoluzionarie concrete e formazione delle idee necessarie per cambiare le cose, senza schematismi ma tenendo la barra dritta sul progetto rivoluzionario. Una intervista-conversazione che aiuta a comprendere come si sono formati i gruppi dirigenti rivoluzionari in America Latina negli anni ’90 e che oggi, in Bolivia come in Venezuela, sono uomini alla guida di governi popolari.

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Pablo Iglesias: Il nostro ospite di oggi è matematico, è stato guerrigliero, è stato in carcere ed è uno dei pensatori marxisti più dotati dell’America Latina. È anche vicepresidente della Bolivia. A “Otra Vuelta de Tuerka” : Álvaro García Linera. Álvaro García Linera, grazie per essere venuto a “Otra Vuelta de Tuerka”, compagno.

Álvaro García Linera: Pablo, grazie per l’invito. Per me è un gran piacere partecipare al tuo programma

Pablo Iglesias: Cominciamo. Nasci nel 1962 a Cochabamba. Com’è la tua infanzia e adolescenza in quel posto così speciale per capire cosa è successo in Bolivia negli ultimi tempi?

Álvaro García Linera: Per introdurre meglio l’argomento per il popolo spagnolo, spiego che io nasco in un luogo di valli. La Bolivia ha l’altipiano, 4000 metri, dove si trova La Paz (sede del governo), le valli tra le Ande, 2000-2500 metri, e poi c’è l’Amazzonia, a 200 metri sul livello del mare. Io nasco nelle valli, una terra molto fruttifera e generosa, nella città di Cochabamba, da una famiglia cattolica di classe media. Sono il più piccolo di 4 fratelli. Mi ricordo che vivevo per strada, nel senso che il nostro luogo di gioco era la strada. In quei tempi si poteva giocare nella strada con un pallone, salire sugli alberi, la madre controllava ogni ora e intanto facevamo quello che volevamo lì fuori. C’erano sempre i fratelli maggiori che si occupavano di me. Siamo rimasti là fino ai 6 anni. Una infanzia molto in famiglia. Condividevo questa vita con i fratelli e la madre perché il padre ci aveva lasciati. Veniamo da una famiglia separata.

Dai 6 anni vado a vivere a La Paz. Vado a 3600 metri d’altezza. Lì rimango a studiare quasi fino a prima di finire gli ultimi 3 anni di scuola secondaria. Lì la mia vita era diversa perché non c’era il calore della madre, che è molto importante. Vivevo con i fratelli ed infine sono rimasto un po’ solo perché i fratelli, poco per volta, tornavano dalla madre che si occupava di loro ed io rimango solo. In quella situazione comincio a temprare un po’ il mio carattere diventando più autonomo. Sono tempi in cui mi tocca vivere le dittature militari, i colpi di Stato, gli aerei che arrivano e mitragliano i luoghi senza poter sapere quali, e, ogni volta che c’era un golpe militare, la famiglia alla quale eravamo affidati, ci obbligava a mettere il letto contro la finestra affinché non entrassero le pallottole. Mi ricordo i colpi di stato del 1969, ’70, ’71 finché non è arrivato il dittatore Banzer. Queste cose un bambino le vive con paura. Ma c’era già come un’abitudine collettiva nell’assumere i colpi di Stato come parte della vita e della politica quotidiana e a tenere sempre una riserva di cibo, non avvicinarsi alle finestre, dormire per terra perché il letto si doveva mettere contro la finestra per non far entrare le pallottole vaganti che c’erano sempre in giro. Dopo il quarto quinto giorno dal golpe si poteva uscire di nuovo. Se questo succedeva intorno al mese di agosto, i militari dicevano: “E’ finito l’anno scolastico. Tutti passano al secondo anno per decreto”. Per noi bambini questa era una festa perché avevamo 4 mesi di vacanza continua. Questo è il mio ricordo de La Paz.

Pablo Iglesias: C’è un’esperienza fondamentale per te nel 1979. Un’esperienza di unità operaia e contadina che in qualche modo rappresenta molto in Bolivia dopo l’esperienza del ’52. In che misura questo rappresenta una delle tue prime esperienze di politicizzazione?

Álvaro García Linera: Esco dal liceo nel 1981. Ma già 3 o 4 anni prima è cominciata la complicata transizione verso la democrazia. Si sta chiudendo il tempo delle dittature. Continuano ad esserci colpi di Stato, ma già c’è dibattito democratico, nascono partiti di sinistra, di nuovo colpi di stato, elezioni, di nuovo colpo di stato, elezioni, nuovo colpo di stato, elezioni, colpo di stato, elezioni. Sono 4 anni in cui ci si politicizza, ci si introduce nell’ambiente politico. Si comincia a imparare che il nucleo del collettivo, del popolare era il movimento operaio, conosciuto, il movimento dei minatori forgiato da ribellioni e massacri in un modo molto particolare di prendere la vita. È gente che lavora nelle cave, a 500 – 1000 metri sotto terra 8-12-14 ore. E si forma uno spirito molto audace e guerriero. Questo fa parte della traiettoria del movimento operaio boliviano con le insurrezioni degli anni ’30 ’40 ’50. Quando ci si sveglia alla vita politica a 13-14 anni, si eredita questa carica operaia del popolare, del democratico.

Ma nel ’79 ho vissuto qualcosa di molto particolare che era l’emergere del movimento indigeno. La Bolivia è, è stata e continuerà ad essere un Paese indigeno, ma il movimento indigeno ha avuto le sue tappe in questi anni ’60 ’70 e ’80 in cui io ho vissuto. È un momento di risveglio della sua organizzazione, del suo discorso. E mi è capitato di vedere un blocco stradale che è una mobilitazione di comunità contadine che chiudono l’accesso alla città affinché non entri e non esca nessuno. Affinché non escano e non entrino mezzi di trasporto, né cibo né altro.

È una cosa nuova. Non c’era stata prima un’esperienza simile, dal tempo di Tupac Katari contro gli spagnoli che allora colonizzavano la Bolivia. È un linguaggio che ci colpisce tutti. E di fatto in questo blocco stradale verso la città di La Paz, capeggiato dagli Aymaras (in Bolivia Aymaras y Quechua sono le nazioni indigene maggioritarie) risveglia nella gente della città una serie di timori che evocavano quello che era accaduto 200 – 300 anni prima. Ed è un movimento indigeno che si risveglia con una struttura organizzativa propria, non era più la COB (Central Obrera Boliviana), non erano i minatori, erano gli indigeni contadini che parlavano un’altra lingua, che avevano un altro discorso, che avevano un’altra struttura di mobilitazione e che non obbedivano alla COB. Questo è stato uno spartiacque personale, uno spartiacque politico che segnerà la mia vita. Fino a tutt’oggi ho questa ossessione di inserirmi, di capire, di intendere quel linguaggio, quel linguaggio collettivo, quella storia collettiva.

Pablo Iglesias: Come è stato il tuo soggiorno in Messico? So che hai studiato nell’UNAM. Io ci sono stato 6 mesi come ricercatore. È uno spazio di un’intensità politica senza paragone. Io ho conosciuto Mariátegui nell’UNAM. Per un europeo è impressionante capire cosa rappresentava allora il movimento zapatista attraverso gli occhi di Mariátegui. Noi europei abbiamo sempre avuto molta difficoltà quando cercavamo di applicare le categorie del marxismo in America Latina. Come ha influito su di te quell’esperienza degli anni passati a Città del Messico?

Álvaro García Linera: Il fatto che ti ho raccontato circa il blocco stradale che rompe e dualizza l’azione collettiva in Bolivia (miniera e indigena) io l’ho vissuto nel ’79 quando avevo 16 anni. Esco due anni dopo dal liceo, nell’81, e vado in Messico a studiare scienze matematiche. Ho potuto vivere un momento molto speciale perché in quel momento il Messico era la capitale del pensiero e della politica. Esiliati spagnoli, esiliati argentini, esiliati peruviani, esiliati boliviani, del Paraguay, Uruguay, guatemaltechi, salvadoregni, guerriglieri, politici, intellettuali, accademici. Allora il Messico ha avuto una fioritura intellettuale e culturale senza paragoni.

Io arrivo a 17 anni in Messico e mi trovo a vivere quell’esperienza. Librerie piene di libri di sinistra. Lì conosco Gramsci, Althusser e i libri che non potevo avere in Bolivia perché lì c’era la dittatura e per un libro si rischiava di essere messi in carcere o di scomparire. Perciò per me è come arrivare in un paradiso dei libri perché potevo trovare di tutto. Seminari, film, riunioni pubbliche, riunioni clandestine. Lì io mi sono inserito molto rapidamente in due esperienze guerrigliere centroamericane. La rivoluzione sandinista aveva trionfato nel ’79 però c’erano guerriglie in Guatemala e nel Salvador. Io m’inserisco nelle organizzazioni guerrigliere del Salvador, che erano in piena offensiva, e nelle organizzazioni guerrigliere del Guatemala, e in Messico, come azione di solidarietà. Questo sarà molto importante per me perché mi permette di avvicinare le mie letture marxiste, che io avevo adottato fin dai 14 anni, alla versione militare del marxismo Nguyên Giáp, Mao Tse Tung, i testi delle guerriglie centroamericane come metodo di lotta. Mi ha molto colpito la riflessione che si faceva in Guatemala, avanzata per quel tempo, sul tema cosiddetto “etnico nazionale”. La guerra in Salvador era dove c’era l’ERP (Esercito Rivoluzionario del Popolo, ndt) dove c’erano i Maya. Tra i gruppi di sinistra in tutta l'America Latina che si riunivano in Messico, erano gli unici che riflettevano sul tema indigeno. Neanche i boliviani che erano andati in esilio parlavano di questo argomento. Continuavano ad essere il classico movimento operaio, contadino povero. Non capivano il tema indigeno. La UNRA (la coalizione delle forze rivoluzionarie del Guatemala, ndt) invece sì. Ho cominciato perciò a leggere i loro testi. Mettevo insieme quello che leggevo di Marx sul tema della colonizzazione. Il “Siglo XXI” ha fatto dei pezzi importanti sul tema coloniale di Marx, poi di Lenin, poi di Otto Bauer. I marxisti che capiscono la questione nazionale nel caso dell’Europa. Mi permette insomma di venire a conoscenza della visione d’avanguardia, per quei tempi, dei guatemaltechi. Sono quindi due sorgenti: una più militarista e l’altra quella dell’identità, che mi dà strumenti per iniziare a riflettere meglio su quello che io avevo vissuto nel ’79. Un blocco stradale, un’insurrezione indigena che non aveva comando operaio, che non obbediva agli operai che parlava in un altro modo, che recuperava altri simboli, che si nutriva di altri nutrienti dalla storia che non facevano parte della lettura operaia classica che si faceva in Bolivia. Rimango in Messico 3 anni e mezzo. Accorcio i tempi per terminare gli studi e quindi ritorno in Bolivia con tutta questa carica.

Pablo Iglesias: Capisco che è stato essenziale per intendere l’esperienza degli Ayllu Rossi e dell’Esercito Guerrigliero Tupac Katari. Parlaci di questa esperienza perché molti spagnoli sono impressionati dal fatto di vedere un vice presidente con un passato d’impegno politico nella guerriglia.

Álvaro García Linera: In America Latina negli anni 1981-1983 i governi dittatoriali sono in ripiego, ma sempre minacciano, sempre guardano dall’alto in modo minaccioso le democrazie controllate. Io mi immergo nelle esperienze centroamericane. Rafforzo la mia formazione marxista di base, rafforzo la mia formazione indianista che mi permetteva di capire gli elementi degli indigeni in Bolivia. Recentemente abbiamo editato le opere complete di Fausto Reinaga (che è stato un intellettuale, poco riconosciuto dalla sinistra) che ha parlato della rivoluzione india. È un linguaggio feroce, è un linguaggio di denuncia terribile, ma lo faceva: parlava della rivoluzione india. Io cercavo di trovare nella sinistra in esilio una visone complessiva di quello che succedeva in Bolivia, che capisca il problema popolare, il movimento operaio, però che, in particolare, capisca il movimento indigeno. Non la trovo. Trovo una sinistra in esilio tradizionale, dalla più radicale a quella armata, c’era l’Esercito di Liberazione Nazionale ereditato dal Che Guevara che era pure in esilio. Non avevano alcuna lettura degli indigeni. Non hanno risposte sul tema dell’identità. Continuavano ad essere contadini, piccolo borghesi, piccoli proprietari che dovrebbero lasciare che il movimento operaio li educhi e li porti verso la dittatura del proletariato. E questo per me era indigeribile, impossibile. Perciò abbiamo deciso, con un gruppo di boliviani con cui stavamo in Messico e di compagne messicane, di ritornare in Bolivia e provare ad organizzare da zero un’organizzazione clandestina, pubblica e clandestina. Eravamo gente che aveva 22 anni! Eravamo ragazzini, ma siamo ritornati con l’idea che : “la sinistra non serve. Noi siamo gente di sinistra, ma questa sinistra non serve. È in un altro secolo, in un altro paese, dice cose sbagliate.” Perciò, in 7 persone, siamo tornati in Bolivia con l’intenzione di provare a costruire una struttura politica e militare. Erano gli anni del dibattito sull’organizzazione politico/militare, della OPM. Politicamente ci siamo immediatamente inseriti nei centri minerari. Ci siamo dedicati interamente alla politica, a organizzare gruppi di lettura. Abbiamo elaborato volantini per criticare la destra patteggiatrice e la sinistra inetta. Certo, nessuno ci prendeva in considerazione, eravamo troppo pochi, non eravamo nulla in confronto alla storia delle organizzazioni che avevano 30, 40, 60 anni di vita politica. Dopo un anno abbiamo cominciato ad avere piccoli gruppi in alcuni centri minerari, poi siamo passati alle fabbriche più grandi della Bolivia, e abbiamo iniziato a visitare comunità indigene. In questo lavoro ci incontriamo con Felipe Quizpe (El Mallku) che veniva da un’esperienza indianista politica pubblica che però si era divisa in molti gruppi e questo gruppo era il più radicale che pensava anche al tema delle armi.

[Piccolo inserto filmato. Parla El Malku: “Noi abbiamo il nostro piccolo paradigma. La nostra pedagogia d’insegnamento alla gente. La nostra forma d’istruire secondo il nostro pensiero perché il marxismo non era adatto, non nasceva. È come prendere una pianta da Cuba e trapiantarla nel lago Titicaca. No, non riesce.”].

Ci siamo quindi incontrati e abbiamo cominciato a lavorare nelle miniere, nelle imprese minerarie clandestinamente per formare gruppi di formazione politica e di preparazione militare. Siamo andati nelle comunità dove avevmo sia partecipazione pubblica, come corrente d’opinione, come organizzazione politica che partecipa ai congressi sindacali, e dopo, poco a poco, formazione militare, un’organizzazione clandestina. Ed è così che nascono i Ayllu rojos Tupac Kataristi. I Tupac Kataristi evocano un eroe indigeno Aymara che si sollevò contro la colonia spagnola. Gli Ayllu Rossi vengono dal “rosso” dei comunisti, dei comunitaristi. Ci sono molte comunità rosse e comunità per così dire “comuniste” e Tupac Katariste che evocano i nostri eroi ancestrali. Sorge quindi così un’organizzazione che combinava il pubblico (presenza ai congressi, con documenti, dibattiti e conferenze) con l’organizzazione clandestina più chiusa, che si preparava per una sollevazione militare sia nelle miniere, che nelle fabbriche e nelle campagne. Tutto questo dal 1984, anno in cui siamo ritornati in Bolivia, fino al 1992, anno in cui veniamo arrestati e rimaniamo 5 anni in carcere.

Pablo Iglesias: Raccontaci questa esperienza. Per i politici il carcere è sempre un’esperienza speciale. Toni Negri dice sempre che l’esperienza del carcere non è uguale per i prigionieri comuni e per i politici. È sempre un momento di riflessione e un momento di studio. Com’è la tua esperienza a Chonchocoro, anni di reclusione, ma anche anni di studio e di riflessione teorica.

Álvaro García Linera: Mi mettono in carcere nel 1992. Sono stato desaparecido per una settimana, che è stata una settimana di torture e maltrattamenti. Dopo mi mandano al carcere di Chonchocoro, un carcere a 4000 metri d’altezza, lontana dalla città di La Paz, un carcere di massima sicurezza inaugurata con soldi della USAID. Ma era un regime decente, chiuso, di estrema sicurezza, c’erano 4 poliziotti per ogni detenuto, con molte torri, mitragliatrici, videocamere, deterrenti elettrici, sbarre. Non c’era tortura e maltrattamenti ma era un regime di controllo assoluto della tu vita. Ho imparato molto.

Prima cosa a conoscere l’essere umano, perché, siccome il carcere è un luogo tanto piccolo, tutte le miserie e le virtù della gente affiorano come in un telescopio. Hai un microscopio negli occhi. Vedi la virtù della gente nella sua generosità e nel pericolo, ma vedi pure la miseria quotidiana della gente. Aiuta a capire l’essere umano.

Un secondo aspetto è che c’era da mangiare gratis. L’USAID faceva sì che ci fosse da mangiare gratis e decente per i prigionieri. Avevo perciò tempo per leggere ed ho approfittato per leggere, quando ho potuto, quando hanno potuto entrare i libri. All’inizio mi hanno fatto introdurre un solo libro. Sono stato 8 mesi con un solo libro. Non ne facevano entrare altri. Dopo c’è stato un moto carcerario che ha fatto sì che potessero entrare libri controllati, carte, documenti. Tutto strettamente sotto controllo di sicurezza e intelligence dello Stato. Potevo scrivere. Era come una specie di ritiro monastico: 4000 metri, silenzio assoluto, solo il vento, un sole ardente, hai da mangiare, hai dove dormire ed hai la solitudine assoluta. Puoi asfissiare (ed è molto probabile che la gente lo faccia) e rifugiarti nella droga e nell’alcool, o consolidarti internamente, che è quello che ho cercato di fare io attraverso la lettura. La lettura è stata per me la libertà. Mediante la lettura e mediante le idee, potevo smontare le sbarre, rivoltare le torrette e il controllo dell’intelligence che controllava fino all’ultimo dettaglio di ogni foglio, di ogni lettera che mi arrivava. È stato il mio momento idealista, in cui mi sentivo libero. Ho cominciato ad esplorare le diverse correnti delle mia formazione.

Ho anche imparato qualcosa che mi aiuta anche oggi, Pablo. Ho imparato a ballare con il tempo. Il tempo, dice Einstein, è come flessibile. Io ho imparato nella forza della mia gioventù (sono entrato in carcere a 30 anni) con molto impeto, con fuoco interno molto grande, ero un uomo che viaggiava dalle comunità alle miniere, mi dedicavo a tempo pieno alla cospirazione e alla lotta politica. E all’improvviso non posso più farlo, non posso più muovermi se non chiedendo l’autorizzazione a poliziotti che mi filmavano, mi registravano, aprivano cancelli d’acciaio ogni 5 metri. Era quasi come essere seppelliti sotto terra. Dovevo capire cosa stava succedendo con il tempo. Così ho imparato a ballare col tempo: bisogna saper aspettare il proprio momento. Possono passare anche 30 anni a volte perché arrivi il tuo momento. Questo momento, in cui si apre la porta dell’opportunità, devi saperlo sfruttare fino a dare l’ultima goccia di sangue, rischiando tutto, e poi saper aspettare 5 - 10 - 20 anni. Questo senso della logica del tempo è quello che ho imparato in carcere e che mi aiuta a tutt’oggi ad avere una visione più entusiasta, ma anche tollerante di quello che si può fare nella storia.

Pablo Iglesias: Ed è arrivata la finestra dell’opportunità con il ciclo della ribellione in Bolivia, la guerra del gas, la guerra dell’acqua, la vittoria elettorale nel dicembre del 2005. E da allora ad oggi, cosa ha significato questa finestra di opportunità? Cosa ha fatto bene Evo, cosa avete fatto bene voi per sfruttarla bene? Il bilancio di questi anni in cui si è consolidato un governo popolare che è probabilmente uno di quelli che riceve maggior appoggio in America Latina da parte del proprio popolo.

Álvaro García Linera: Uscendo dal carcere, si esce con delle “lezioni”. Uno può decidere “basta, non ne voglio più sapere. È stato sufficiente così”.

Si può invece dire: “Ho sbagliato in questa e quest’altra cosa, ma quest’altra era giusta.”. Io ho fatto così. Ero ossessionato, sono ossessionato, dal tema dell’emancipazione indigena, governo indigeno, governo di indios come una necessità storica per l’America Latina, per il mondo e per la Bolivia. Come un modo di unire la Bolivia in fin dei conti. Sono uscito quindi con questa mia idea. Sono entrato all’università, mi hanno invitato a fare lezioni all’università. Casualmente ho iniziato a fare un programma televisivo come il tuo. Io, Pablo, sapevo che dovevo parlare alla TV, che dovevo scrivere in qualsiasi angoletto di giornale su questo argomento. Sapevo che il tema delle idee è centrale...

Pablo Iglesias: Le battaglie ideologiche si devono fare sui mezzi di comunicazione. Certo.

Álvaro García Linera: Perciò, quando al terzo anno della mia uscita dal carcere, mi hanno pubblicato una piccola intervista di tre righe sul giornale, ho festeggiato e fatto salti di gioia. Dopo, la televisione mi ha permesso un piccolo programma in un canale sconosciuto alla maggior parte dei boliviani: il canale universitario. Siccome io avevo letto molto e conoscevo tutte le tesi degli alunni, invitavo gli alunni a parlare delle loro tesi. Cercavo di collegare le loro tesi di economia, le loro tesi di sociologia, con qualcosa di concreto per la gente. Così ho cominciato nella televisione. Dopo sono comparso in interviste. Dopo mi hanno invitato a partecipare in un programma d’opinione. Sono infine arrivato a fare servizi d’informazione in un canale, prima di essere invitato a partecipare con il Presidente Evo alla candidatura.

[qui viene riprodotto nella trasmissione un piccolo spezzone d’intervista fatta ad Alvaro Garcia Linera e Raquel Gutierrez nel 1999 da eju.tv: “La storia in profondità” ... “Rottura del razzismo statale, emancipazione del mondo indigeno, sono state nostre parole d’ordine, orientamenti fondanti per noi come militanti politici, come attivisti e come ricercatori, e continuano ad esserlo ancora oggi]

La battaglia mediatica mi ha permesso due cose: di essere conosciuto da altre persone e di mettere sul tavolo le mie riflessioni, le mie idee, rendendole disponibili al dibattito pubblico.

Questo avviene in un momento in cui la Bolivia vive una crisi, una crisi economica (cade il prodotto interno lordo a cifre negative) e una crisi politica in tutti i sensi della parola (crollo di credibilità delle élite da parte della popolazione, troppe aspettative generate e risultati molto scarsi, scontri interni tra blocchi del potere politico, fine della credibilità presso la gente delle politiche neoliberiste che avevano privatizzato il gas, il petrolio, l’elettricità, le ferrovie, le telecomunicazioni, e che ora volevano privatizzare la gestione dell’acqua). Perciò, nel mezzo di questo neoliberismo selvaggio, trionfante in Bolivia, emerge una resistenza intorno all’acqua. Il 10 di aprile ne ricorre il 15° anniversario. Emerge una battaglia per l’acqua. Si organizzano campagna, città, operai, indigeni, in un modo che non era stato pianificato da nessuno, da nessun intellettuale, da nessun accademico di sinistra, ma si organizza e forma una massa densa sufficientemente forte da rompere una decisione governativa. Il governo, dopo vent’anni, retrocede di fronte alla miriade di privatizzazioni. Il governo aveva fatto una legge per privatizzare l’acqua, allora inizia la mobilitazione, la gente si solleva, prendono la città, bloccano le strade, si uniscono tutti, dalla classe medio alta, dalle signorine che vanno alle università private all’indigena quechua che parla solo quechua, era un solo blocco. La ragazza dava all’indigena il sale da mettere sotto gli occhi e un fazzoletto per difendersi dai gas, e il contadino le rispondeva in quechua e la ragazza, che sapeva parlare inglese, non capiva niente, ma sapevano che insieme stavano difendendo l’acqua, in una barricata. Quando si vede questa immagine [...] si capisce che era impossibile rompere questa unità. Succede in una poblacion, a Cochabamba, dove io ero nato, ma è stata una vittoria, e il governo retrocede. A partire da questo momento c’è una concatenazione di eventi in effetto domino. Poi viene il tema del gas e il governo vuole vendere gas agli Stati Uniti mentre non c’era gas per il consumo in Bolivia. C’è molto gas ma in quegli anni i boliviani non ne consumavano. Non c’era gas per i boliviani. C’era gas per l’esportazione. Vendevamo gas al Brasile e ora volevamo venderlo agli Stati Uniti, ma non c’era gas per i boliviani. Volevano farlo anche col Cile, anche se abbiamo una contesa da 130 anni (ci hanno invaso e ci hanno tolto lo sbocco al mare e noi rivendichiamo la nostra uscita sovrana all’oceano Pacifico). Perciò: seconda misura sbagliata del governo, si mobilita il popolo, sull’altopiano si mobilitano gli indigeni Aymaras, si mobilita la gente delle città e negli altipiani. Il governo deve retrocedere.

E, a partire da questo momento, leadership locali, come quella di Evo Morales (che era stato nella resistenza in difesa della foglia di coca), o attivisti politici come noi (che eravamo stati in carcere), con un pensiero comunitarista, socialista, comunista, che cominciavamo a riflettere su questa nuova situazione, cominciammo a tenere una maggior presenza nella palestra del dibattito. Che stava succedendo in Bolivia? Le nostre voci, che prima erano marginali, cominciano ad avere maggior ricezione.

Abbiamo cominciato a dare battaglia molto sui media. Sono anni di grande attivismo nei media, nelle università nelle conferenze. Evo partecipa alle manifestazioni, alle riunioni, alla guerra dell’acqua, alla guerra del gas. Lui era deputato e nell’ambito parlamentare era il portavoce degli esclusi, di quello che si stava discutendo a livello delle comunità. Io, da parte mia, nei mezzi di comunicazione, scrivendo, parlando nell’università, dando conferenze nei sindacati, partecipando a tutte le interviste che mi chiedevano, dalla radio più locale di cumbia al canale televisivo con gli analisti più antichi e noti, io non rifiutavo niente. Stavo in ogni mezzo di comunicazione per dare il mio punto di vista su quello che bisognava fare nel paese.

Qui un elemento importante, Pablo, a partire dalla nostra esperienza. Ci sarà una vittoria elettorale molto importante ed Evo diventa Presidente a gennaio del 2006. Un indio Presidente in una società dove gli indios potevano essere solo facchini, muratori o camerieri, perché gli indios non avevano altre possibilità nella Bolivia prima di Evo. Nell’anno 2005 questo si rompe. C’è una specie di capovolgimento, quello che stava sotto va sopra e quello che stava sopra va sotto. Un cambiamento di tempo totale. Una rivoluzione, usando il linguaggio contemporaneo. Ma per arrivare là c’è una crisi del sistema dei partiti, c’è una crisi del sistema di governo, c’è una crisi delle idee e del senso comune dominante. Tutto sbocca in una vittoria di un nuovo senso comune. Per tirare fuori una ricetta di scienza politica: prima delle grandi vittorie politiche elettorali, c’è sempre una vittoria nel senso comune della gente.

Pablo Iglesias: prima si vince nella guerra di posizione e poi nella guerra di movimento...

Álvaro García Linera: Non è al contrario. Deve esserci stata prima questa vittoria nel senso comune, nelle idee della gente, del commerciante, del trasportatore, del taxista, della donna di casa. Non importano le idee delle elìtes, che sono sempre un mondo a parte. Quelle che importano sono le idee della gente in basso, i loro processi logici e morali, quelli con i quali la gente valuta il mondo, ci vive dentro. È lì che abbiamo vinto. È stato Evo con le sue manifestazioni, con i suoi dibattiti in parlamento, le sue interviste. Sono stati altri dirigenti sociali, è stato Felipe, è stato Oscar Olivera, che hanno posto al dibattito sociale altri temi prima marginali e proibiti, ma che ora volevano forza perché il resto stava crollando. Nazionalizzare le risorse naturali, Assemblea Costituente, Governo indigeno: queste idee 10 anni fa erano una pazzia. Questi anni diventavano gli anni che cominciavano a emergere come una speranza, di fronte alla mancanza di speranza collettiva delle altre idee, del fallimento delle altre idee, delle altre spiegazioni. Questi tre assi hanno iniziato ad articolare una riforma morale, un processo morale di organizzare la vita, di vedere la vita e di cercare il futuro. Si vince lì. Sono 5 anni: 2000, 2001, 2002, 2003, 2004, 2005 e nel 2006 c’è la coronazione della vittoria elettorale che permetterà di modificare la correlazione di forza tra le classi sociali nello Stato nei successivi 4 anni con battaglie per modificare la stessa struttura statale.

[viene trasmesso un breve filmato della cerimonia d’insediamento di Evo Morales come Presidente il 22.01.2006. Giuramento mano sul cuore e pugno sinistro alzato. Abbraccio emozionato tra Evo e Alvaro Garcia Linera.

Poi un altro breve filmato del 21 gennaio del 2006, prima dell’insediamento come Presidente. Quel giorno Evo Morales è stato nominato “Apu Mallku” o “leader supremo” dei popoli indigeni dell’America Latina. Alla cerimonia hanno assistito rappresentanti di differenti nazioni e popoli indigeni dell’America e del mondo.]

Pablo Iglesias: Alla luce della tua esperienza come attivista, come governante e della tua esperienza teorica come marxista, ti devo chiedere come vedi l’Europa e la Spagna e come vedi noi? Ricordo una tua conferenza diretta al gruppo della sinistra europea, che è stata molto commentata, e che segnalava un atteggiamento troppo passivo invitando a scuotersi. Come giudichi quello che è accaduto in Europa negli ultimi anni. L’emergere di Siryza da una parte in Grecia e la nascita nostra. Il nostro caso è molto particolare perché noi siamo cresciuti con voi, siamo andati in Bolivia per cercare d’imparare e di dare una mano. Ed abbiamo imparato in Bolivia ed in altri paesi latino americani molte cose che poi ci sono servite per fare politica qui. Come ci vedi? Come vedi quello che sta accadendo in Europa e in Spagna?

Álvaro García Linera: Per noi, fino a 2 anni fa, questo panorama era desolante, deprimente. Parlare d’Europa era come parlare di un continente vecchio in tutti i sensi della parola, già in ritirata comparato con altri continenti emergenti in un senso o nell’altro, come può essere l’Asia o l’America Latina. Ma questo è cambiato, è cambiato considerevolmente negli ultimi due anni. Vediamo un risorgere (complicato, difficile) del risveglio della speranza. Non vediamo più il continente fossile che era quello che vedevamo 2 anni fa. Vediamo un continente dove, in vari luoghi, qua in Spagna con Podemos, in Grecia con Siryza, in Italia, c’è una società civile che si muove. È anche un ricambio generazionale, ma è pure un ricambio etico, un ricambio culturale. Non si tratta più dell’emergere di una sinistra testimoniale, ma di una sinistra etica che ha l’impegno dei principi, ma pure la necessità di una nuova generazione, di una nuova epoca, che esige risposte pratiche, concrete, non meramente testimoniali. Non si tratta di una sinistra che si batte il petto per quello che è successo negli anni ’60, ’70 o negli anni ’50 in Russia, perché è un argomento che non ci compete e di cui non siamo stati responsabili o colpevoli nel bene e nel male. Parliamone, ma non abbiamo complessi per quello che è successo nell’Europa dell’Est 30 anni fa. Siamo una sinistra disgustata da tutto questo intrigo imprenditoriale e politico, che abbiamo vissuto in Bolivia e che si vive qui in Europa e che è una prostituzione della politica. Quando si mischiano fatti economici con fatti politici e la politica è solo uno strumento per l’arricchimento economico e imprenditoriale di 2 o 3 o 4 o 5 imprese o 10 famiglie, la politica è prostituita, e questo non serve a nulla. Da lì non può venire fuori niente che non sia deludente. Veniamo all’emergere della nuova sinistra, che come generazione rompe con tutto questo. Noi latino americani depositiamo molte speranze in questo. Molte speranze. Così come abbiamo imparato, quando eravamo adolescenti, le cose che si facevano qua in Europa, le aspettative che sorgevano qua in Europa, ora di nuovo stiamo riprendendo a sviluppare interesse verso quello che succede in Europa e diciamo: “Si muove pure l’Europa.” C’è un’altra Europa, un’Europa nuova, bella in senso culturale e politico del termine. Credimi che il mondo ne ha bisogno. Un’Europa spenta e fossile è una perdita per il mondo. L’Europa ha sempre avuto un ruolo di luce nell’ambito politico e culturale dal 19° secolo, non deve essere diverso ora. Lo è stato negli ultimi 20 anni, deludente, ma ora c’è di nuovo speranza. Quando vediamo voi diciamo: l’Europa ha speranza. Quest’Europa che tanto cercavamo come referente politico e culturale può resuscitare con gente come voi. Credimi che dall’America Latina vi vediamo con molte aspettative, con molte speranze, e vi auguriamo fortuna in un cammino molto difficile. Vedo che vi stanno attaccando da tutte le parti e che la vecchia Europa fossile resiste duramente ad accettare tutto questo nuovo che sorge.

Pablo Iglesias: La restaurazione è sempre stata così in Europa. L’assolutismo resiste...

Álvaro García Linera: Sono molto duri contro tutto il nuovo che sorge, contro di voi, contro Siryza... E continuerà ad essere così. Bisogna essere preparati a questo, ma il mondo vi vede con aspettativa. Credo che ci sarà un nuovo incontro dell’Europa con la sua vera storia: quella popolare, giovane, creativa, intellettuale. Voi non potete stancarvi, non potete fermarvi, non potete abbattervi di fronte a questi poteri che vi si lanciano contro in una maniera feroce. Riprendetevi! Voi siete il futuro. Gli altri rappresentano le zampate di un passato che si rifiuta di morire e che è stato il peggio dell’Europa negli ultimi 100 anni. Dai tempi del fascismo si rifiuta di andarsene perché ha tanti interessi mescolati, tanti interessi economici privati, contro gli interessi economici collettivi della società. Darà zampate ancora più aggressive. L’importante è che questa nuova forza emergente dall’Europa non si arrenda ed abbia la perseveranza di riprendersi da queste avversità. Questa è pure la nostra esperienza. In piccolo, noi siamo un paese molto più piccolo. Alla fin fine la Bolivia di Evo Morales è un monumento alla perseveranza, all’audacia, del saper combinare e valutare il momento in cui bisogna essere audaci e quello in cui bisogna essere perseveranti e pazienti quando è necessario. È l’idea di “ballare con il tempo” che ho imparato in carcere, Pablo.

Pablo Iglesias: Facciamo un giro di riconoscimenti. Io ti dico una serie di nomi e ti chiedo di dire una frase. Lenin.

Álvaro García Linera: Il rivoluzionario dell’azione e dell’egemonia intesa come sconfitta dell’avversario.

Pablo Iglesias: Antonio Gramsci.

Álvaro García Linera: Il rivoluzionario dell’azione e della riflessione che intendeva l’egemonia come articolazione e trasformazione culturale. Mi permetto di fare una parentesi. In fondo, Pablo, l’egemonia sono tutti e due, non è né Lenin né Gramsci. Articola, cambia il senso comune, ma sconfigge l’avversario. E dopo aver sconfitto l’avversario può nuovamente articolarsi. Gramsci da solo non basta. Neppure Lenin da solo basta. Bisogna sommare Gramsci più Lenin e un’altra volta Gramsci. Questa è la formula reale pratica dell’egemonia: costruzione culturale ed articolazione, sconfitta dell’avversario e nuovamente costruzione e articolazione dell’avversario sconfitto, però articolarlo nuovamente. Questo è quanto abbiamo imparato a fare in Bolivia.

Pablo Iglesias: Lo scontro con l’avversario è ineludibile. Nikos Poulantzas

Álvaro García Linera: Il grande teorico dello Stato inteso come relazione umana. Per me il suo grande apporto è “lo Stato è dentro di noi”, persino nel modo in cui vogliamo superarlo, include il modo di relazionarci tra te e me, tra me e il cameraman, tra il cameraman e l’impiegato, tra l’impiegato e il poliziotto. Lo Stato inteso come una relazione tra persone e che molte volte domina le stesse persone.

Pablo Iglesias: Renè Zavaleta.

Álvaro García Linera: Il grande intellettuale marxista boliviano che ci ha insegnato a cercare l’articolazione tra gli operai e la storia indigena. Lui ha visto questa articolazione come passiva. Con Evo invece l’articolazione è stata attiva, e non intorno agli operai, ma intorno agli indigeni. Violando un poco le regole di Zavaleta. Però è stato comunque un uomo che ha cercato in qualche modo una articolazione tra la lunga storia indigena la corta storia operaia e la sua azione collettiva.

Pablo Iglesias: Althusser

Álvaro García Linera: Mi piaceva molto la sua schematicità algebrica, ma dopo aver studiato topologia o matematica non mi piaceva più gran che. Uno degli autori con cui ho avuto punti di vicinanza all’inizio, durante la mia gioventù (14 -15 -16 anni).

Pablo Iglesias: Abbiamo iniziato tutti con Marta Harnecker, come deformazione popolare, tu no?

Álvaro García Linera: Io no. Io ho cominciato con Althusser perché i miei amici leggevano Marta Harnecker, e io volevo andare al di là dei miei amici. Leggevo Marta Harnecker per vedere chi citava (Althusser, Balibar, Gramsci) ed andavo a cercare direttamente loro. E quando volevo andare al dibattito, perché in quel momento, per far innamorare una ragazza dovevi citare Gramsci, Althusser, Marta Harnecker.

Pablo Iglesias: A me è toccato studiare Toni Negri, magari mi fosse toccato Althusser ...Toni Negri

Álvaro García Linera: Toni Negri è una delle mie fonti per capire il movimento operaio. Di fatto uso una delle sue categorie: composizione politica. E io la allungo e la tiro, la maneggio come una gomma da masticare, parlo di composizione politica, composizione economica, composizione culturale. Ma mi ha aiutato molto a capire la dinamica della costituzione della soggettività operaia.

Pablo Iglesias: Dijek

Álvaro García Linera: Un filosofo al quale sono molto affezionato. Apprezzo la sua prosa insurrezionale, non tanto il suo contenuto. Credo che politicamente sia ancora piuttosto ingenuo. Del resto è un filosofo. Ma la sua prosa e la sua maniera di usarla per chiamare nuove generazioni a inserirsi nella politica, è insostituibile.

Pablo Iglesias: Ernesto Laclau, quello dell’egemonia e strategia socialista, non quello successivo...

Álvaro García Linera: Non quello del populismo. Uno degli intellettuali che molti anni fa, negli anni ’80 (avevo 20 anni) mi ha aiutato a capire Gramsci. Ma torno a dirti che, siccome non ha avuto un’esperienza di egemonia, la sua lettura dell’egemonia come articolazione e lotta culturale, ti dico che è incompleta. Gli è sempre mancato Lenin. Gli è sempre mancato: “Sconfiggi il tuo avversario”. Prima o poi devi sconfiggere il tuo avversario. Tra 5 anni o un anno o 10 anni , ma devi sconfiggerlo. Se non lo sconfiggi, lui continua ad armarsi e ti sconfiggerà perché l’egemonia in fondo è una forma di dominio.

Pablo Iglesias: Siamo arrivati alla fine Álvaro. Ti do la tazza della Tuerka. Tienila con la mano sinistra per far vedere il logo, girato verso quella telecamera, e brinda a quello che vuoi tu.

Álvaro García Linera: A voi, alla nuova Europa, a questa nuova Europa che emerge dalle mani e dal cervello, dall’azione e dal vostro corpo collettivo. Il mondo ne ha bisogno. L’Europa rivivrà. Ci sentiremo orgogliosi nel mondo di un’Europa viva, attiva, creativa, trasformatrice, rivoluzionaria. A voi, affinché siate, dovete essere, l’avvenire.

Pablo Iglesias: Molte grazie. È stato un piacere grandissimo.

Álvaro García Linera: Grazie a te Pablo.

da http://piensachile.com/2017/09/otra-vuelta-tuerka-pablo-iglesias-alvaro-garcia-linera

traduzione di Rosa Maria Coppolino

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