Lo scorso 4 settembre Severino Salvemini (su L’Economia del Corsera) ci introduceva ai caratteri di una nuova classe sociale, definita
dalla sociologa americana Elizabeth Currid-Halkett come classe
“aspirazionale”. Una classe sociale al tempo stesso elitaria e popolare,
distante tanto dagli eccessi materialistici dei nuovi ricchi quanto
dall’esibizionismo consumistico della vecchia borghesia: «La nuova élite
è unita dall’uso dello stesso linguaggio, da letture di giornali con
medesimi osizionamenti (l’abbonamento al “New York Times” o al “New
Yorker” è un passaggio quasi obbligato, così come lo è quello a
Netflix), dal consumo di cibo organico e naturale, dal prodotto che
esprime autenticità e trasparenza, dalle pratiche ambientalistiche,
dalle medesime logiche di educazione parentale (viva l’allattamento al
seno prolungato e le pappe della nonna), dal supporto alle
organizzazioni non governative e di giustizia sociale, e così via».
Bontà dell’articolista averla definita “élite”, perché altrimenti
avrebbe descritto i tratti antropologici della sinistra, almeno quella
che va per la maggiore in Occidente. Siamo
in presenza di un doppio involontario paradosso. Mentre Salvemini
riporta i caratteri di un ceto correttamente indicato come elitario,
poco oltre chiamato addirittura aristocratico, totalmente sovrapposto ai
valori (e ai redditi) dell’upper class statunitense, in Europa
(ma anche negli Usa) una descrizione di questo tipo disegna
antropologicamente il “tipo” della sinistra, almeno nella sua vulgata
mediatizzata ma che, non può negarsi, esiste veramente e presenta se
stesso come “sinistra” (o, negli Usa, presenta se stesso come liberal, democratico,
eccetera). Una serie di comportamenti alter-consumistici scambiati per
“valori”, e questi confusi per un posizionamento politico: questa la
torsione che oggi vive l’idea di sinistra. Un’idea che la rende
completamente inservibile: se questa è la sinistra, è il nemico. Come
infatti è, o dovrebbe essere, sentito come nemico il putrido mondo della
Ivy League, dove converge nelle sue forme più marcescenti questa confusione tra élite sociali e posizionamento politico “di sinistra” (qui
un altro articolo che affronta il medesimo argomento). Poi, va da sé,
non tutta la sinistra corrisponde alla descrizione data, ma poco importa
in questo senso. Quello che rimane nel discorso pubblico è una sinistra
incapace di prendere veramente le distanze da quei caratteri, in tutto e
per tutto sussunti dal capitalismo, anzi: vero e proprio motore dello
sviluppo consumistico liberista. Questo uno dei motivi, tra le altre
cose, alla base delle alterne fortune del cosiddetto “populismo”, che
nella sua multiforme ambiguità e “inafferrabilità” è capace di suscitare
odio verso tutti questi atteggiamenti giustamente indicati come
elitari. Altrove nell’articolo si riportano altri dati sensibili di
questo modello antropologico: «E’ una classe non necessariamente ricca o
al top della piramide sociale. Sono individui di reddito assai diverso,
in un insieme che accomuna architetti precari e imprenditori di
successo, ma tutti aventi la stessa visione del mondo». L’articolista
non si accorge che “la stessa visione del mondo” è data proprio perché
si appartiene a una medesima classe sociale, nonostante i
diversi livelli di reddito. Il problema, per noi, sorge come detto
quando s’insinua la confusione tra questa visione del mondo
“democratica”, fluente, “culturale”, e la categoria politica della
“sinistra”. Qualche decennio fa sarebbe stata inequivocabilmente
definita “destra”, sia pure illuminata (illuminata dal reddito). Oggi il
ribaltamento dei ruoli è tale per cui questa classe ha una “medesima
visione del mondo” ma si distribuisce equamente nel continuum liberale
di destra e sinistra, accomunati appunto da questa identica visione
nelle cose. A rimanere fuori dal perimetro elitario è il “popolo”,
inteso nel suo senso di subalternità, non deformato dalle narrazioni
liberiste. Che questo popolo abbandoni la sinistra è la conseguenza
diretta di questa confusione.
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