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16/09/2017

La nuova classe aspirazionale

Lo scorso 4 settembre Severino Salvemini (su L’Economia del Corsera) ci introduceva ai caratteri di una nuova classe sociale, definita dalla sociologa americana Elizabeth Currid-Halkett come classe “aspirazionale”. Una classe sociale al tempo stesso elitaria e popolare, distante tanto dagli eccessi materialistici dei nuovi ricchi quanto dall’esibizionismo consumistico della vecchia borghesia: «La nuova élite è unita dall’uso dello stesso linguaggio, da letture di giornali con medesimi osizionamenti (l’abbonamento al “New York Times” o al “New Yorker” è un passaggio quasi obbligato, così come lo è quello a Netflix), dal consumo di cibo organico e naturale, dal prodotto che esprime autenticità e trasparenza, dalle pratiche ambientalistiche, dalle medesime logiche di educazione parentale (viva l’allattamento al seno prolungato e le pappe della nonna), dal supporto alle organizzazioni non governative e di giustizia sociale, e così via». Bontà dell’articolista averla definita “élite”, perché altrimenti avrebbe descritto i tratti antropologici della sinistra, almeno quella che va per la maggiore in Occidente. Siamo in presenza di un doppio involontario paradosso. Mentre Salvemini riporta i caratteri di un ceto correttamente indicato come elitario, poco oltre chiamato addirittura aristocratico, totalmente sovrapposto ai valori (e ai redditi) dell’upper class statunitense, in Europa (ma anche negli Usa) una descrizione di questo tipo disegna antropologicamente il “tipo” della sinistra, almeno nella sua vulgata mediatizzata ma che, non può negarsi, esiste veramente e presenta se stesso come “sinistra” (o, negli Usa, presenta se stesso come liberal, democratico, eccetera). Una serie di comportamenti alter-consumistici scambiati per “valori”, e questi confusi per un posizionamento politico: questa la torsione che oggi vive l’idea di sinistra. Un’idea che la rende completamente inservibile: se questa è la sinistra, è il nemico. Come infatti è, o dovrebbe essere, sentito come nemico il putrido mondo della Ivy League, dove converge nelle sue forme più marcescenti questa confusione tra élite sociali e posizionamento politico “di sinistra” (qui un altro articolo che affronta il medesimo argomento). Poi, va da sé, non tutta la sinistra corrisponde alla descrizione data, ma poco importa in questo senso. Quello che rimane nel discorso pubblico è una sinistra incapace di prendere veramente le distanze da quei caratteri, in tutto e per tutto sussunti dal capitalismo, anzi: vero e proprio motore dello sviluppo consumistico liberista. Questo uno dei motivi, tra le altre cose, alla base delle alterne fortune del cosiddetto “populismo”, che nella sua multiforme ambiguità e “inafferrabilità” è capace di suscitare odio verso tutti questi atteggiamenti giustamente indicati come elitari. Altrove nell’articolo si riportano altri dati sensibili di questo modello antropologico: «E’ una classe non necessariamente ricca o al top della piramide sociale. Sono individui di reddito assai diverso, in un insieme che accomuna architetti precari e imprenditori di successo, ma tutti aventi la stessa visione del mondo». L’articolista non si accorge che “la stessa visione del mondo” è data proprio perché si appartiene a una medesima classe sociale, nonostante i diversi livelli di reddito. Il problema, per noi, sorge come detto quando s’insinua la confusione tra questa visione del mondo “democratica”, fluente, “culturale”, e la categoria politica della “sinistra”. Qualche decennio fa sarebbe stata inequivocabilmente definita “destra”, sia pure illuminata (illuminata dal reddito). Oggi il ribaltamento dei ruoli è tale per cui questa classe ha una “medesima visione del mondo” ma si distribuisce equamente nel continuum liberale di destra e sinistra, accomunati appunto da questa identica visione nelle cose. A rimanere fuori dal perimetro elitario è il “popolo”, inteso nel suo senso di subalternità, non deformato dalle narrazioni liberiste. Che questo popolo abbandoni la sinistra è la conseguenza diretta di questa confusione.

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