Divieto di bocciatura alle scuole elementari e medie inferiori, accorciamento dei licei a quattro anni, ventilato taglio di un anno di scuola media, alleggerimento dell’esame di Stato con inserimento del colloquio sull’alternanza scuola–lavoro, istituti aperti d’estate senza attività didattica. Queste le misure e gli annunci che hanno travolto il mondo dell’istruzione negli ultimi mesi.
Non c’è bisogno d’essere un osservatore particolarmente attento per comprendere come le iniziative della ministra Fedeli vadano tutte nella stessa direzione, quella dello smantellamento e dello svilimento del poco che rimane della scuola pubblica.
Meno chiara, nel bailamme di annunci e di iniziative apparentemente disorganiche, è la mission – per usare il nuovo linguaggio aziendalistico in voga nella “Buona scuola” – che anima questa raffica di staffilate volte alla demolizione del sistema scolastico. La forza delle classi dirigenti, d’altronde, sta anche nel depistare e nel portare il dibattito su questioni particolari, facendo così perdere di vista i contorni del disegno di trasformazione in atto.
Lascio a pedagogisti e psicologi la discussione sull’opportunità di bocciare o meno, così come quella sulla “riorganizzazione” dei cicli, per concentrare l’attenzione sul progetto generale che da anni stravolge l’impianto stesso dell’istruzione.
Ogni modello di scuola è, e non potrebbe essere altrimenti, organico al contesto socio–politico nel quale opera: il sistema pone delle finalità ben precise che la scuola s’incarica di tradurre in progetti didattici e formativi. È dunque necessario, per comprendere a fondo le trasformazioni introdotte dai governi succedutisi in questi anni, guardare al quadro generale del paese.
L’Italia di oggi non è quella della democrazia ritrovata e della Costituzione antifascista né quella del miracolo economico o della ricerca collettiva di emancipazione sociale e politica degli Sessanta e Settanta. L’Italia presente è erede del neoliberismo degli anni Ottanta e Novanta ed è il risultato di un meccanismo di governance politico–economica, costruito dalla borghesia italiana ed europea per scatenare la lotta di classe dall’alto, mettendo fine a ogni forma di interclassismo e a tutte le tutele sociali che i settori popolari hanno faticosamente strappato nel secondo dopoguerra.
Coerentemente con questo impianto, la scuola dell’era neoliberista deve perdere ogni connotato analitico, critico e problematico che possa indurre le generazioni presenti e future a sondare i presupposti sistemici, a vagliarne la validità, ad appurarne caratteristiche e limiti, a riflettere sulle possibili alternative. Queste non sono cose a cui lo studente debba e possa pensare: il sistema c’è già e non è negoziabile.
Il mercato e il profitto sono dunque i pilastri sui quali deve poggiare l’architrave della Buona scuola. Lo studente svilupperà sostanzialmente una sola competenza fondamentale, quella di capire come inserirsi al meglio nell’ingranaggio della domanda e dell’offerta, verrà dunque formato come una sorta di periferica plug and play, flessibile, adattabile e compatibile; se è particolarmente brillante e creativo, potrà, al massimo, suggerire come oliare il meccanismo e come farlo girare al meglio, innovando e aggiornando il sistema. L’unica creatività permessa è quella del 2.0: evoluzione, aggiornamento, restyling.
Non deve stupire allora se la scuola si accorcia, si semplifica, se accantona la dimensione culturale della conoscenza e abbraccia la mera esecutività delle competenze: qui non servono statisti, cittadini consapevoli o pensatori, servono esecutori che producano senza rivendicare o creare problemi, senza chiedersi il perché di nulla, ma badando solo a come fare meglio e più velocemente ciò che fanno.
La scuola del mercato con i suoi mercanti di schiavitù cognitiva è servita.
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