di Anja Ettel, Holger Zschäpitz, 04/12/2017
Quando gli economisti della Banca centrale europea (BCE) elaborano delle ricerche su temi cardine dell’Unione, in genere sono gli stessi “guardiani della moneta” ad invitare i giornalisti alla discussione, prima ancora della pubblicazione ufficiale dei documenti.
Gli studi elaborati dai ricercatori della BCE sono talmente numerosi che, senza il necessario briefing con la stampa, la maggior parte rischierebbe di finire nel dimenticatoio dell’opinione pubblica senza colpo ferire.
Non sorprende quindi che anche la ricerca più recente, un’osservazione a lungo termine sulla “convergenza reale nella zona euro”, valesse una tavola rotonda. In fin dei conti, si tratta di una delle questioni più delicate dell’unione monetaria.
Nello specifico, si tratta di comprendere se l’Euro, sin dalla sua introduzione nel 1999, abbia effettivamente soddisfatto l’obiettivo che si era posto, ovvero quello di diventare il motore dell’integrazione economica dell’Europa, o se, al contrario, abbia ampliato il divario tra le economie degli Stati membri. Lo studio emerso dai ranghi degli economisti della BCE giunge a conclusioni poco lusinghiere. Anche a 18 anni dall’introduzione della moneta unica, persiste nell’area valutaria un forte divario nord-sud. Anzi, dalla crisi finanziaria del 2008 a oggi, la distanza tra i paesi dell’Eurozona è persino aumentata.
La Spagna non è riuscita a stare al passo
Secondo gli autori dello studio è sorprendente come l’Unione monetaria non abbia favorito l’avvicinamento delle economie dei primi 12 membri dell’Unione. “Contrariamente a quanto si sarebbe atteso, l’introduzione dell’Euro non ha fatto da catalizzatore per una rapida convergenza”.
Ciò vale soprattutto per il sud della zona euro. A detta del rapporto, la Spagna, per esempio, in termini di sviluppo del reddito è rimasta indietro di 18 anni rispetto alla media UE. I segnali di crescita dei primi anni sarebbero stati totalmente annullati dalla crisi del debito.
Dall’avvento dell’Euro anche l’Italia è precipitata sempre di più. Lo Stato che affaccia sul mediterraneo, che, considerando il Pil pro capite, originariamente faceva parte dei Paesi ricchi, è franato nel frattempo nel gruppo delle nazioni più povere. Le conseguenze della crisi finanziaria degli anni 2008/2009 possono spiegare solo in parte questa crisi. A detta degli autori, i problemi del Belpaese, affetto da tempo da cronici problemi di crescita e debolezze strutturali, sono in parte “autoinflitti”.
La ricchezza del Paese diminuisce
È importante sottolineare come lo studio in questione sia un saggio tecnico elaborato da alcuni economisti della BCE insieme a un autore originario della Slovacchia. Il documento non riflette necessariamente l’opinione della Banca Centrale Europea. È comunque degno di nota il fatto che l’organo comunitario pubblichi in modo così prominente un’analisi decisamente critica nei confronti dell’Euro.
Tuttavia, il saggio non facilita per nulla i suoi lettori: molte delle formulazioni rimangono piuttosto vaghe, e gli stessi grafici non riflettono dei risultati immediatamente chiari, ma mostrano delle conclusioni frammentate rispetto alla convergenza nell’unione monetaria. Pertanto, i non-economisti sono costretti a ricomporre gli esiti della ricerca come se si trovassero alle prese con un puzzle.
I numeri sono allarmanti. Prima dell’inizio dell’euro il reddito pro capite italiano era il 122% della media europea. Diciotto anni dopo la ricchezza è solo al 96%. Al contrario, la Spagna è migliorata di dieci punti, dal 93% al 103%, tuttavia, questo aumento è dovuto principalmente a un boom immobiliare che non ha avuto vita lunga.
I numeri della convergenza delle economie europee sfatano un altro mito. Pare che la Germania, infatti, non sia affatto il grande vincitore dell’Euro, come si sente ripetutamente affermare. Soprattutto nei primi anni dell’Unione monetaria, la ricchezza tedesca era in calo rispetto all’intera UE. Nel 1998, il PIL pro capite era pari al 125% della media e alla fine del 2016 solo il 123%.
La Germania è al di sotto del proprio potenziale
Quanto siano davvero pronunciate le differenze tra i vari Paesi è mostrato nella quinta parte dello studio. Un grafico a barre confronta l’ipotetico sviluppo della prosperità nell’area dell’euro con quello reale. Tra i grandi vincitori ci sono prima di tutto l’Irlanda e gli Stati baltici. La Germania si piazza nelle posizioni centrali, risultando in lieve perdita. I maggiori perdenti risultano Grecia, Portogallo, Italia e Cipro.
Nonostante tutto, gli economisti non arrivano al punto di incolpare l’euro di questo disastro. Secondo gli autori, molti Paesi hanno perso la propria competitività globale molto prima dell’adesione alla moneta unica. In effetti i risultati suggeriscono che i Paesi a cui l’euro ha portato benefici sono, in particolare, quelli che hanno rispettato ampiamente le regole, come gli Stati baltici, la Slovacchia e i Paesi Bassi.
A crollare sono stati invece i Paesi che hanno aderito all’Euro ma che hanno in seguito infranto le regole per via di una “cultura della svalutazione” della propria moneta maturata nel corso di decenni. L’Irlanda, al contrario, ha beneficiato della sua posizione di Paese a bassa tassazione, una tattica che non pochi esperti considerano ingiusta.
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