di Chiara Cruciati
Dei due aspiranti
contendenti alla poltrona di presidente egiziano al posto dell’attuale,
l’ex generale al-Sisi, uno è a rischio di detenzione per atti osceni e
un altro è bloccato negli Emirati Arabi. Dopo la prima candidatura
ufficiale anti-Sisi alle presidenziali del 2018 dell’avvocato per i
diritti umani e esponente della sinistra egiziana Khaled Ali
(ufficializzata a metà novembre, ma su cui pesa il processo in corso per
“oscenità”), nei giorni scorsi è stata la volta di una personalità nota
nell’establishment politico egiziano.
Ahmed Shafiq ha annunciato alla fine della scorsa settimana
l’intenzione di sfidare il presidente golpista dagli Emirati Arabi, dove
vive dal 2012, quando perse le elezioni contro l’allora candidato islamista Morsi (anche perché sul suo capo pendevano accuse di corruzione). Domenica
voleva imbarcarsi per Parigi per poi volare a New York e
successivamente rientrare al Cairo, dove avrebbe ufficializzato la
candidatura. Ma è stato bloccato all’aeroporto di Abu Dhabi ed è tuttora – denuncia – “detenuto” dalle autorità emiratine.
Shafiq ha reagito con un video in cui accusa Abu Dhabi di
“interferenze nelle questioni interne egiziane” e ribadisce l’intenzione
di correre alle presidenziali: “Ho già annunciato la mia decisione di
presentarmi alle elezioni presidenziali – dice nel video l’ex premier –
Avevo intenzione di iniziare un tour tra le comunità egiziane all’estero
prima di tornare in patria. Tuttavia, sono rimasto sorpreso dal divieto
a viaggiare per ragioni che non comprendo e non intendo capire. Voglio
anche esprimere gratitudine agli Emirati Arabi per avermi ospitato in
questo periodo, ma reitero la mia contrarietà all’intervento degli Eau
nelle questioni interne egiziane e rifiuto il divieto a muovermi liberamente o ad esercitare il mio diritto costituzionale”.
Il video è stato inviato ad Al Jazeera su
cui sono subito piovute le richieste degli Emirati Arabi a non mandarlo
in onda. Abu Dhabi ha risposto via Twitter: il ministro degli Affari
Esteri, Anwar Gargash, ha pubblicato una serie di tweet in cui definisce
Shafiq un “ingrato”. “Vogliamo sottolineare che non esistono
impedimenti alla partenza dagli Emirati del generale Ahmed Shafiq”, ha
aggiunto.
Versioni diverse, un piccolo mistero. Di certo ci sono i
rapporti stretti che legano Abu Dhabi al Cairo di al-Sisi: membri della
coalizione a guida saudita impegnata dal marzo 2015 in Yemen, partner
nell’isolamento voluto da Riyadh a giugno di quest’anno del rivale
Qatar, i due paesi condividono anche l’identica posizione in merito alla
crisi libica, sponsor più o meno dichiarati del generale “ribelle” Khalifa Haftar e del governo di Tobruk.
Abu Dhabi ha sostenuto fin dall’inizio il golpe dell’esercito
egiziano guidato da al-Sisi, nel luglio 2013, contro il presidente
Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana, nemico comune di
Riyadh, Abu Dhabi e l’attuale Cairo. Da allora gli aiuti economici al
paese nordafricano si sono intensificati: gli Emirati Arabi sono
il primo investitore straniero e partner commerciale in Egitto con 6.2
miliardi di dollari di investimenti, 2.4 miliardi di esportazioni
annuali e 885 milioni di importazioni dal Cairo. Ed è
protagonista anche sul piano delle attività delle aziende private, con
centinaia di compagnie emiratine attive in Egitto, tra le quali spicca
l’immobiliare Emaar, titolare di ingenti progetti di costruzione lungo
la costa.
Shafiq, probabilmente, è rimasto vittima dei affari altri. Braccio
destro di Mubarak per decenni, simbolo del regime trentennale del
dittatore per il quale ha servito tra le fila dell’aviazione militare (prima come pilota e poi come generale, fino ad assumerne il comando dal 1996 al 2002) fino agli scranni ministeriali, Shafiq aveva indossato i panni di primo ministro nei giorni caldi di Piazza Tahrir:
il 29 gennaio 2011, a quattro giorni dall’esplosione della
sollevazione, fu nominato premier per placare le piazze e spegnere le
proteste. Ma le mancate risposte al popolo e la repressione durissima
lo costrinsero alle dimissioni dopo soltanto un mese.
Difficile dire se dietro il divieto a partire ci sia la longa manus
del presidente al-Sisi. Di certo sarebbe un contendente in meno,
soprattutto nel caso di una condanna di Khaled Ali, abbastanza
probabile, che lo taglierebbe fuori dalla corsa prima che questa
cominci. Eppure sembra che al-Sisi si preoccupi per nulla: la
vittoria nel 2018 è quasi assicurata. Nonostante la repressione
durissima e la crisi economica, gli egiziani stanno vivendo una fase di
profonda frustrazione. Il polso lo danno i dati delle elezioni
parlamentari dell’ottobre 2015, a due anni dal golpe: nemmeno un terzo
della popolazione si recò alle urne, un mero 25% specchio della perdita
di fiducia del popolo egiziano nella politica interna.
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