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02/12/2017

Egitto - Gli EAU ostacolano la candidatura di Ahmed Shafiq

di Chiara Cruciati

Dei due aspiranti contendenti alla poltrona di presidente egiziano al posto dell’attuale, l’ex generale al-Sisi, uno è a rischio di detenzione per atti osceni e un altro è bloccato negli Emirati Arabi. Dopo la prima candidatura ufficiale anti-Sisi alle presidenziali del 2018 dell’avvocato per i diritti umani e esponente della sinistra egiziana Khaled Ali (ufficializzata a metà novembre, ma su cui pesa il processo in corso per “oscenità”), nei giorni scorsi è stata la volta di una personalità nota nell’establishment politico egiziano.

Ahmed Shafiq ha annunciato alla fine della scorsa settimana l’intenzione di sfidare il presidente golpista dagli Emirati Arabi, dove vive dal 2012, quando perse le elezioni contro l’allora candidato islamista Morsi (anche perché sul suo capo pendevano accuse di corruzione). Domenica voleva imbarcarsi per Parigi per poi volare a New York e successivamente rientrare al Cairo, dove avrebbe ufficializzato la candidatura. Ma è stato bloccato all’aeroporto di Abu Dhabi ed è tuttora – denuncia – “detenuto” dalle autorità emiratine.

Shafiq ha reagito con un video in cui accusa Abu Dhabi di “interferenze nelle questioni interne egiziane” e ribadisce l’intenzione di correre alle presidenziali: “Ho già annunciato la mia decisione di presentarmi alle elezioni presidenziali – dice nel video l’ex premier – Avevo intenzione di iniziare un tour tra le comunità egiziane all’estero prima di tornare in patria. Tuttavia, sono rimasto sorpreso dal divieto a viaggiare per ragioni che non comprendo e non intendo capire. Voglio anche esprimere gratitudine agli Emirati Arabi per avermi ospitato in questo periodo, ma reitero la mia contrarietà all’intervento degli Eau nelle questioni interne egiziane e rifiuto il divieto a muovermi liberamente o ad esercitare il mio diritto costituzionale”.

Il video è stato inviato ad Al Jazeera su cui sono subito piovute le richieste degli Emirati Arabi a non mandarlo in onda. Abu Dhabi ha risposto via Twitter: il ministro degli Affari Esteri, Anwar Gargash, ha pubblicato una serie di tweet in cui definisce Shafiq un “ingrato”. “Vogliamo sottolineare che non esistono impedimenti alla partenza dagli Emirati del generale Ahmed Shafiq”, ha aggiunto.

Versioni diverse, un piccolo mistero. Di certo ci sono i rapporti stretti che legano Abu Dhabi al Cairo di al-Sisi: membri della coalizione a guida saudita impegnata dal marzo 2015 in Yemen, partner nell’isolamento voluto da Riyadh a giugno di quest’anno del rivale Qatar, i due paesi condividono anche l’identica posizione in merito alla crisi libica, sponsor più o meno dichiarati del generale “ribelle” Khalifa Haftar e del governo di Tobruk.

Abu Dhabi ha sostenuto fin dall’inizio il golpe dell’esercito egiziano guidato da al-Sisi, nel luglio 2013, contro il presidente Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana, nemico comune di Riyadh, Abu Dhabi e l’attuale Cairo. Da allora gli aiuti economici al paese nordafricano si sono intensificati: gli Emirati Arabi sono il primo investitore straniero e partner commerciale in Egitto con 6.2 miliardi di dollari di investimenti, 2.4 miliardi di esportazioni annuali e 885 milioni di importazioni dal Cairo. Ed è protagonista anche sul piano delle attività delle aziende private, con centinaia di compagnie emiratine attive in Egitto, tra le quali spicca l’immobiliare Emaar, titolare di ingenti progetti di costruzione lungo la costa.

Shafiq, probabilmente, è rimasto vittima dei affari altri. Braccio destro di Mubarak per decenni, simbolo del regime trentennale del dittatore per il quale ha servito tra le fila dell’aviazione militare (prima come pilota e poi come generale, fino ad assumerne il comando dal 1996 al 2002) fino agli scranni ministeriali, Shafiq aveva indossato i panni di primo ministro nei giorni caldi di Piazza Tahrir: il 29 gennaio 2011, a quattro giorni dall’esplosione della sollevazione, fu nominato premier per placare le piazze e spegnere le proteste. Ma le mancate risposte al popolo e la repressione durissima lo costrinsero alle dimissioni dopo soltanto un mese.

Difficile dire se dietro il divieto a partire ci sia la longa manus del presidente al-Sisi. Di certo sarebbe un contendente in meno, soprattutto nel caso di una condanna di Khaled Ali, abbastanza probabile, che lo taglierebbe fuori dalla corsa prima che questa cominci. Eppure sembra che al-Sisi si preoccupi per nulla: la vittoria nel 2018 è quasi assicurata. Nonostante la repressione durissima e la crisi economica, gli egiziani stanno vivendo una fase di profonda frustrazione. Il polso lo danno i dati delle elezioni parlamentari dell’ottobre 2015, a due anni dal golpe: nemmeno un terzo della popolazione si recò alle urne, un mero 25% specchio della perdita di fiducia del popolo egiziano nella politica interna.

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