di Stefano Mauro
Pochi giorni dopo la
liberazione di Rawa, l’ultima città-roccaforte di Daesh in Iraq, il
primo ministro iracheno Haidar Al Abadi ha annunciato che “le forze
irachene hanno battuto lo Stato Islamico solo militarmente, ma la
vittoria finale arriverà dopo la disfatta degli ultimi militanti che si
sono rifugiati nel deserto”.
La sconfitta di Daesh da tutte le città irachene rappresenta
il passaggio da una guerra convenzionale contro i territori dell’Isis ad
un conflitto molto più complesso contro un gruppo che agirà
prevalentemente con attacchi terroristici. Prova ne è
l’attentato dell’altro ieri a Baghdad contro truppe delle Forze di
Mobilitazione Popolare (Hashd Shaabi o Pmu) e il relativo aumento di
attentati contro obiettivi governativi.
La maggiore preoccupazione di Baghdad in effetti è quella di
contrastare e disperdere definitivamente dalla zona desertica della
provincia di Anbar, lungo il confine siriano, qualsiasi focolaio di
resistenza dell’Isis e qualsiasi tentativo di riorganizzazione da parte
delle milizie jihadiste.
Le parole di Abadi intendevano, però, essere anche una risposta
polemica agli annunci del presidente iraniano, Hassan Rouhani, relativi
alla definitiva sconfitta di Daesh e al ruolo “fondamentale delle truppe
iraniane” nel sostenere l’Iraq nella lotta contro l’organizzazione
jihadista. Al-Abadi, riferendosi ai recenti contrasti
tra Baghdad ed Erbil – con gli scontri tra peshmerga ed esercito iracheno
dopo il 25 settembre e la dichiarazione d’indipendenza del Kurdistan
dall’Iraq – ha posto l’accento “sull’importanza dell’unità
nazionale da parte di tutte le etnie e confessioni” perché “come è
avvenuto in passato le differenze politiche possono esclusivamente
spianare la strada ai gruppi estremisti”.
Le forze politiche irachene sono divise sul sostegno e sul
mantenimento dello stesso livello di alleanza con Teheran. Da una parte
la corrente politica che è guidata da Nuri Al Maliki, leader del partito
Dawa, considerato l’esponente politico più vicino a Teheran, ritiene fondamentale il mantenimento dell’alleanza
geopolitica con l’Iran. Secondo molti esponenti del partito l’intervento
di Teheran è stato essenziale per contrastare la deriva jihadista nel
paese e preservare l’unità dei territori dalle conquiste di Daesh.
Nel momento di disintegrazione dell’esercito iracheno, infatti,
l’Iran ha sostenuto e rifornito quasi tutte le milizie sciite che fanno
parte delle Pmu (Brigate Badr, Kataeb Nujaba, Assaib ahl al Haq):
formazioni coordinate, armate e addestrate dal battaglione Al Quds del
celebre generale Qassem Soleimani. Molti analisti mediorientali
hanno commentato che la presenza in questi giorni di Soleimani nelle
battaglie di Al Bukamal (Siria) e Rawa (Iraq) avesse un duplice
significato: sancire la definitiva sconfitta militare di Daesh e
rimarcare il fondamentale supporto iraniano, con Baghdad in debito nei
confronti di Teheran.
Dall’altra ci sono altri esponenti politici, come lo stesso
presidente Al-Abadi, che vivono i rapporti con Teheran come un’ingerenza
nell’identità nazionale. In alcuni casi molti di questi esponenti sono
più orientati verso posizioni filo-occidentali (Usa, Turchia e
Arabia Saudita) e godono del sostegno politico ed economico del giovane
Mohamed Bin Salman che sta spingendo per allontanare sempre più Baghdad dalla sfera d’influenza di Teheran.
Un esempio concreto sono state le visite a Riyadh del premier
Al-Abadi e dello stesso esponente sciita Moqtada Al Sadr. Le
manifestazioni di questi ultimi mesi, organizzate prevalentemente dal
movimento sadrista, contro le ingerenze straniere, la corruzione e lo
smantellamento delle infrastrutture statali avevano anche come slogan
“Fuori Teheran, Iraq libero”. L’ambizione iraniana di estendere il
proprio modello politico, infatti, inquieta non solo la comunità
sunnita, ma anche quella sciita che rivendica uno “sciismo iracheno
indipendente e forte” sia dalle influenze di Teheran sia da quelle di
Washington.
Anche da un punto di vista religioso molti sciiti nella città di
Najaf (centro spirituale dello sciismo iracheno), tra cui l’Ayatollah Al
Sistani, si oppongono al sistema di governo esistente in Iran, alla
dottrina della Vilayat Faqih – nella quale c’è un’unione tra religione e
politica incarnata dalla figura di Khamenei – e sono più orientati su
uno sciismo “iracheno” senza nessun tipo di commistione tra sfera
religiosa e sfera politica. In questo contesto di divisioni e contrasti,
dopo la caduta di Daesh, la futura campagna elettorale per le prossime
elezioni nel 2018 e l’avvenire dell’Iraq appaiono inevitabilmente
incerti.
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