di Martina Simoni
Il conflitto Israelo-Palestinese ha per ovvi motivi sempre richiamato l’attenzione sulla violenta conquista del territorio attraverso l’esercito e le colonie. Tuttavia esiste anche una sorta di “economia politica dell’occupazione”, a volte meno conosciuta, che intreccia la storia dell’occupazione con i regimi di lavoro coatto, le migrazioni e le lotte salariali. In che modo questa storia economica ha doppiato la storia del conflitto?
Possiamo individuare alcuni periodi principali. Il primo periodo è costituito dalla cosiddetta “conquista del lavoro”: all’inizio del Novecento il movimento sionista si trovava di fronte il problema di come garantire sussistenza per i coloni ebrei che avevano iniziato a trasferirsi. La prima aliya fu una migrazione borghese che impiegava lavoratori palestinesi nelle fattorie. Non avevano quindi nessun interesse ad assumere i nuovi ebrei immigrati dall’Europa dell’est, meno esperti dei lavoratori palestinesi e con richieste salariali più alte. I nuovi migranti ebrei comportavano uno svantaggio economico. Ciò che venne denominata la “conquista del lavoro” fu l’organizzarsi dei nuovi migranti nei partiti sionisti contro l’impiego della forza-lavoro palestinese nelle fattorie. L’International Zionist Organization decise di comprare terre pagando di tasca propria e metterle a disposizione per fattorie collettive, chiamate kibbutzim, e cooperative, chiamate moshavim. Queste terre, che erano al tempo molto costose e difficili da ottenere, vennero messe da parte per i lavoratori ebrei allo scopo di avvicinarsi agli standard europei di vita ed essere competitivi sul mercato locale. Così funzionò fino al 1948, quando la parte di migranti ebrei impiegata nell’agricoltura restava ancora una minoranza della popolazione ebraica. A partire dal 1948 molti palestinesi furono espulsi o persero le loro case. Lo stato di Israele si appropriò della terra e cominciò a ripartirla tra differenti fattorie, kibbutzim e moshavim, che non ebbero perciò più problemi di terra. Al contrario: cominciò un problema legato al lavoro. Era necessario che venissero nuovi lavoratori. Nonostante le pretese socialiste, o addirittura comuniste, le fattorie non ebbero problemi a importare lavoro salariato esterno. In una prima fase si trattò prevalentemente di immigranti ebrei dal Medio Oriente (Nord Africa e Yemen), oggi chiamati mizrahim. Successivamente, con la recrudescenza del governo militare contro i palestinesi in Israele e poi con la conquista dei territori nel 1967, le fattorie si garantirono questo enorme bacino di forza-lavoro palestinese. Quando scoppio la prima intifada nel 1987, i palestinesi cominciarono a rendersi conto che potevano fare leva contro il governo israeliano in quanto lavoratori. Cominciarono a scioperare, in alcuni casi arrivando a violenze contro i padroni, e lo stato israeliano capì che l’utilizzo di forza-lavoro palestinese era un punto di vulnerabilità. Dopo gli Accordi di Oslo del 1993, Rabin cercò di rompere questa leva dei palestinesi importando lavoratori da altre parti del mondo. Tuttavia, l’aspetto fondamentale per Israele era stabilire un regime di migrazione capace di evitare una naturalizzazione massiva di popolazione non ebrea. L’importazione di lavoratori ospiti, ad esempio, avrebbe permesso un soggiorno limitato ad alcuni anni: i lavoratori non avrebbero messo su famiglia e non avrebbero avanzato rivendicazioni politiche. Per quanto riguarda l’agricoltura, il paese che fu selezionato per l’importazione di lavoro fu la Thailandia. Quando alla fine degli anni '90 inizio 2000 la situazione cominciò a stabilizzarsi, i padroni avrebbero voluto importare più forza lavoro ma lo stato decretò una quota massima di 22000 lavoratori. Questo livello rimase tale negli ultimi 15 anni.
In cosa consiste esattamente il sistema di “guest workers” tailandesi? E che funzione anti-palestinese ha avuto all’interno della politica apertasi con la “conquista del lavoro”?
Parlo dell’agricoltura perché si tratta del settore che conosco meglio. Quando la migrazione tailandese si stabilizzò, verso la fine degli anni '90, lo Stato decretò una quota massima di 22 mila lavoratori, livello che restò tale nei successivi quindici anni. Come ho detto, l’obiettivo politico ed economico di Israele è essenzialmente quello di assicurarsi che questa popolazione resti temporanea, che rimanga non garantita, senza diritti politici, senza leve per sollevare rivendicazioni. Il modo in cui fu possibile fare ciò nel settore agricolo fu attraverso un regime del lavoro costituito da diverse componenti. Un primo elemento è che i “lavoratori ospiti” possono venire solo una volta, e per una durata massima di cinque anni. Una seconda componente è che le coppie sposate non possono venire insieme, la grande maggioranza dei lavoratori sono di fatto uomini. La terza componente è che se una donna rimane incinta durante la permanenza è costretta ad abortire o a lasciare il paese. Tutte queste misure sono principalmente finalizzate a mantenere questa popolazione senza garanzie.
Nel caso dei lavoratori agricoli, diversamente da altri settori, c’è una specie di triplo isolamento a cui devono fare fronte. Un isolamento prima di tutto geografico, perché molti vivono in zone periferiche. Un isolamento anche linguistico, perché non parlano ebraico, inglese o arabo. E infine un isolamento sociale, a causa della loro provvisorietà e della politica di revolving door, che dislocandoli continuamente rende difficile per loro una forma di organizzazione politica.
La quarta componente della storia è che Israele non è interessato a imporre questo regime come tale. E’ del resto costoso e complicato garantire che i lavoratori ospiti abbandonino effettivamente il paese. Così lo Stato ha avuto la splendida idea di “responsabilizzare” i datori di lavoro: istituendo il “regime delle quote”. Per fare un esempio: se sono un agricoltore e ho 50 dunam di terra che coltivo a peperoncino, lo Stato ha una formula per valutare il numero di lavoratori di cui ho bisogno e ne assegna, diciamo, 10 per quest’anno. Se io agricoltore dispongo già di lavoratori che possono stare legalmente ancora un anno, posso tenerli; se non ne ho abbastanza, posso chiederne altri. Ma in quanto datore di lavoro, sono responsabile: 1. Che non si fermino oltre il tempo legale (5 anni); 2. Che non vadano a lavorare per qualcun altro, che sia un padrone agricolo o urbano; 3. Teoricamente, che tutte le protezioni lavorative previste dalla legge vangano applicate anche ai lavoratori tailandesi. Di fatto non ci sono ispezioni e non vengono applicate: i lavoratori tailandesi prendono il 70% del loro salario legale, che dovrebbe invece corrispondere al salario minimo israeliano. L’effetto principale del sistema di quote è che gli stessi datori di lavoro, dovendo assicurarsi che le persone lascino il paese e non lavorino per altri, talvolta arrivano a usare mezzi illegali, sequestrando i lavoratori deportandoli in Thailandia, o riconducendoli al posto di lavoro se provano a scappare. Nel 2012 è stato firmato un accordo bilaterale che facesse gestire dagli Stati il processo di assunzione che ha relativamente migliorato la situazione. I lavoratori pagano una quantità di denaro abbastanza moderata da poter saldare il debito con l’azienda spesso in alcuni mesi e poi essere più autonomi nella scelta del contratto di lavoro.
Alcuni mi chiedono se penso che si tratti di un sistema schiavistico. Non penso che sia schiavitù, perché ci sono delle differenze sostanziali rispetto a quest’ultima. Per esempio il fatto che queste persone percepiscono uno stipendio; ma di certo è lavoro non-libero, non si tratta di un mercato del lavoro in cui le persone possono scegliere liberamente.
La transizione dal regime di sfruttamento di manodopera palestinese attraverso l’occupazione, verso il regime migratorio che stai descrivendo attraverso i “lavoratori ospiti”, coincide cronologicamente con delle trasformazioni profonde nello stato sociale israeliano. Pensi che ci siano una correlazione diretta tra questi elementi?
È sicuramente chiaro che il motore principale dell’economia israeliana fino alla seconda intifada è stato questo grande bacino di lavoro palestinese a basso costo. È anche vero che dagli anni ’90, l’economia israeliana ha cominciato a orientandosi verso regimi più intensivi di accumulazione (capital-intensive), basati sul settore hi-tech, tecnologie militari e di sorveglianza, che sono poi il motore dell’attuale economia israeliana. È interessante riflettere alle connessioni tra questi due aspetti, ma non sono un esperto in proposito. Sicuramente Israele oggi è capace di sigillare i territori palestinesi perché ha accesso a un bacino di manodopera non-palestinese a basso costo proveniente dal Sud globale. Nel settore agricolo ci sono i thailandesi, in quello edile i cinesi, in quello domestico informale le donne sudamericane e le africane, e ora ci sono anche molti richiedenti asilo dall’Africa orientale.
Ovunque una politica punitiva viene stabilita rispetto alle migrazioni, l’obiettivo non è mai di fermare la migrazione ma di regolarla, di rendere difficile una forma di organizzazione politica. Bisogna inoltre tener conto del fatto che molti insediamenti israeliani nei territori sono “economicamente periferici”. I coloni, avendo un forte aiuto in termini di welfare, lavorano spesso nell’amministrazione o nella scuola. E’ molto diverso quindi dall’utopia sionista originaria che prevedeva di legare il popolo alla terra e alla coltivazione. Il sud di Israele dove vengono impiegati i lavoratori thailandesi è l’unica zona di Israele in cui il settore agricolo è dominante. Nel resto del paese l’agricoltura ha una funzione più che altro speculativa rispetto al terreno: se il terreno viene ri-allocato dallo Stato per altre funzioni, il proprietario riceve la possibilità di vendere la terra per edificarla, operazione molto più lucrativa dello sfruttamento agricolo. Se ci poteva essere un tempo la possibilità di vivere della terra da piccoli proprietari, questo era dovuto unicamente al fatto che era un mercato chiuso, protezionista. La competizione con il mercato europeo ha reso questa auto-narrazione agreste di Israele sempre più lontana dalla realtà dei fatti.
Il regime delle quote ha tentato del resto anche una sorta di politica di redistribuzione da parte dello Stato, in particolare rispetto al lavoro riproduttivo e domestico asiatico. Dall’inizio degli anni ’90 si guardò in particolare al lavoro riproduttivo attraverso la migrazione dalle Filippine. Prima della migrazione filippina non c’era un vero e proprio mercato domestico della cura, nel senso che le persone anziane venivano seguite presso le proprie abitazioni dai propri parenti. Tuttavia dagli anni ’90 la popolazione israeliana stava diventando più vecchia. Lo Stato cominciò quindi a dare sussidi alle famiglie che assumessero lavoratori stranieri per funzioni domestiche e di cura, in buona parte erano filippini. Lo Stato non pagava direttamente i lavoratori ma piuttosto delle compagnie che a loro volta gestivano l’assunzione dalle Filippine, dal Nepal e dalle zone asiatiche. I lavoratori si indebitavano fortemente nei confronti delle aziende per pagare il viaggio e la possibilità di assunzione, lavorando poi in Israele per ripagare il debito.
Hai menzionato una recente grande crescita di richiedenti asilo dall’Africa orientale.
Attualmente una delle organizzazioni politicamente più forti è proprio quella dei richiedenti asilo dell’Africa orientale, che hanno una storia differente: non sono stati invitati come guest workers, sono migrati autonomamente. Hanno cominciato ad arrivare in Israele nel 2006-2007, in numeri molto elevati. Alcuni anni fa il governo israeliano ha fatto costruire un enorme muro lungo il confine egiziano, che ha fatto molto meno notizia rispetto al muro di separazione in Cisgiordania, ma dal punto di vista infrastrutturale è altrettanto grande se non di più. Ora il flusso si è sostanzialmente arrestato, ma nel corso degli anni si è costituita una grande popolazione. Buona parte di essi sono incarcerati nel sud di Israele, all’interno di strutture che pur avendo una parvenza legale non detentiva sono di fatto prigioni: puoi uscire con l’obbligo di rientro alla sera, ma sei nel mezzo del deserto a quattro ore da qualunque città.
Fonti: prima parte, seconda parte
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