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Nella prima puntata di una serie di approfondimenti in cui ci occuperemo di temi che riguardano in particolare la componente giovanile, ci siamo occupati della situazione delle scuole superiori in Italia. Oggi ci occupiamo della situazione dell’università, e come recita un antico adagio “se Atene piange, Sparta non ride”.
Nel corso della crisi, l’università italiana ha subito infatti un attacco senza precedenti dai vari governi succedutisi negli ultimi anni, sotto l’egida dell’Unione Europea. Il fondo di finanziamento ordinario erogato dal governo agli atenei è diminuito durante la crisi di più del 20 per cento. La riduzione del FFO è stata inevitabilmente scaricata sulla forza lavoro (con blocco delle assunzioni e degli stipendi) e sugli studenti, aumentando progressivamente le tasse universitarie. Il risultato è che ad oggi l’Italia al terzo posto in Europa per il costo della contribuzione universitaria, preceduta solo dal Regno Unito e dall’Olanda, come conferma il rapporto Eurydice prodotto dalla Commissione Europea.
Secondo un’elaborazione a cura dell’UDU, dal 2005 al 2015 le tasse universitarie sono aumentate in media del 61 per cento, facendo aumentare il gettito prodotto dalla contribuzione universitaria complessivamente di 400 milioni di euro. Se ad aumentare sono stati soprattutto gli atenei del Sud che partivano da tasse mediamente più basse (registrando un sonoro più 90 per cento), anche nel caso di atenei del Nord l’aumento è stato significativo.
Oltre ai tagli di Tremonti e Gelmini e la l’abolizione dei vincoli sulle tasse ai fuoricorso a cura del governo Monti, un ulteriore colpo alle tasche degli studenti viene dalla riforma dell’ISEE del 2015, che ha ridotto il numero dei beneficiari di borse di studio. All’interno di una cornice comunicativa con cui le élite governative cercano di far fronte allo stato disastrato del sistema universitario italiano (che oltre ad essere fra i più cari d’Europa “produce” anche il minor numero di laureati fra i paesi OCSE), la Ministra Fedeli ha annunciato l’erogazione di finanziamenti per introdurre una “no tax area” (ossia tasse universitarie uguali a zero) per studenti con ISEE inferiore a 13.000 euro, e una riduzione per quelli con ISEE fra i 13.000 e i 30.000 euro, la cui contribuzione per legge non potrà superare il 7 per cento della differenza fra il proprio ISEE e la soglia dei 13.000 euro.
Per capire l’effetto reale che questo avrà sulla contribuzione media bisognerà aspettare il prossimo anno, soprattutto per capire se i finanziamenti stanziati (55 milioni per il 2017) saranno sufficienti a coprire il fabbisogno degli atenei. Di certo, come notava perfino il Corriere della Sera in un articolo di commento alla misura, la platea di coloro che hanno un ISEE inferiore ai 13.000 euro è comunque assai ridotta. Il rischio è che a fare le spese di questa diminuzione delle tasse siano gli studenti fuoricorso e inattivi, che potrebbero vedersi aumentate le tasse da atenei bisognosi di finanziamenti per coprire la no tax area.
La cosa interessante da notare inoltre è che gli atenei hanno ampia autonomia in materia, perché possono decidere di innalzare la soglia per coprire un numero maggiore di studenti. E cosi’ ad esempio l’Università di Bologna ha deciso che tutti gli studenti con ISEE inferiore ai 23.000 euro dovrebbero usufruire della no tax area. Se il dato è certamente positivo per gli studenti coinvolti, non si può non segnalare come anche questo faccia parte della differenziazione fra atenei di serie A, che potranno permettersi una no tax area più alta, e atenei di serie B che non potranno.
A questa divisione e competizione fra atenei contribuiscono anche le discutibili pratiche di valutazione della ricerca a cura dell’ANVUR, pratiche che sono determinanti per l’assegnazione della quota “premiale” del Fondo di Finanziamento Ordinario. E proprio ANVUR è stata di recente contestata a Bologna per il suo ruolo nell’incrementare le diseguaglianze fra atenei, peraltro ad un costo di svariati milioni di euro.
E così, come segnala un recente articolo su Repubblica, si manifestano due tendenze: da un lato gli atenei di prestigio come la Bocconi o la Normale di Pisa aprono sedi in altre città per conquistarsi nuove “quote” di iscritti, dall’altro nascono federazioni di atenei per creare poli di eccellenza per reggere le meglio la competizione internazionale. Un esempio è la federazione fra le 4 università emiliano-romagnole per creare un “ateneo dei motori” in collaborazione con 8 aziende (con nomi come Lamborghini, Ducati, Maserati), con corsi esclusivamente in inglese per 150 selezionatissimi futuri ingegneri.
L’altra variabile su cui si è scaricata la riduzione dei finanziamenti è il costo del lavoro. A farne le spese sono state le retribuzioni di chi lavora in università, che sono state “congelate” per anni (portando al recente sciopero della docenza universitaria) e soprattutto la componente precaria dei ricercatori, per cui si sono ridotte in maniera significativa le possibilità di ottenere un contratto stabile. Secondo una ricerca condotta da Orazio Giancola della Sapienza e Francesco Vitucci di Sinistra Italiana, fra il 2010 e il 2015 a fronte del pensionamento di 14.492 fra professori e ricercatori sono stati assunti soltanto 2.295 ricercatori a tempo determinato di tipo “b” e 3687 ricercatori di tipo “a”. Soltanto i primi hanno la certezza di ottenere una posizione a tempo determinato una volta passata la procedura di abilitazione scientifica, mentre per i secondi il rischio è di rimanere a piedi una volta scaduto il contratto. Il risultato delle politiche di precarizzazione della forza lavoro universitaria (e non solo) è che ad oggi più del 50 per cento fra i circa 100.000 ricercatori e professori dell’università italiana ha un contratto precario.
Chiudiamo segnalando un importante contributo di Antonio Mazzeo, che ha iniziato una mappatura delle collaborazioni fra gli atenei italiani e le forze armato NATO. Un tema importante di cui si parla molto poco, se si esclude il risalto avuto l’anno scorso dalla campagna degli studenti contro la relazione degli atenei italiani con il Politecnico Israeliano Technion. Vista l’importanza del tema università e guerra, abbiamo deciso di dedicarvi un intero articolo sul nostro blog.
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