A parte il riconoscimento per la perizia tecnico/artistica con cui lo "speciale" è messo insieme (fatta eccezione per il voler "metterci la faccia" a tutti i costi...), l'intera serie dedicata da Cironi all'epopea Bugatti Automobili ha una tara evidente: quella della narrazione mitizzata, che si instrada sulla retorica nazional-popolare dell'Italia che non c'è più.
Una narrazione che pone sotto la lente d'ingrandimento esclusivamente i dati positivi, che si riassumono in buona sostanza nella passione e "genio" italico che da tempo immemore fanno il paio con "spaghetti, pizza e mandolino" nell'immaginario collettivo, purtroppo anche di casa nostra.
Una passione e un genio cui però non si affiancano (quasi) mai le doti organizzative, la capacità di saper fare massa critica, in particolare quando si tratta d'imprenditoria.
La storia di Bugatti Automobili cade in pieno in questo ambito, perché oltre al mito c'è stata anche, anzi soprattutto, un'imperizia gestionale macroscopicamente evidente dai numeri: a fronte di una produzione prevista di 150 vetture l'anno, in 4 anni di operatività commerciale, dallo stabilimento di Campogalliano uscirono soltanto 135 esemplari di EB110.
Ancora più desolante la gestione economica per cui ogni singola finiva per costare alla casa madre quasi 1 milione di dollari dell'epoca a fronte di un prezzo di listino di 600 mila dollari circa.
A fronte di tale criticità, il presidente Romano Artioli decideva comunque di cimentarsi senza successo con le competizioni (come testimonia il video di apertura), allestiva il prototipo della controversa EB112 e acquisiva attraverso la propria controllata lussembughese (il vizietto del paradiso fiscale è un sempreverde...) la proprietà della Lotus.
In buona sostanza Bugatti Automobili, pur perdendo un buon 40% del valore da ogni auto venduta, non lesinava nelle spese (per di più in un periodo in cui la crisi dell'auto mordeva), finendo per chiudere i cancelli nel settembre 1995, dopo appena 8 anni di vita.
Nel giro di qualche tempo la storia del marchio sarebbe divenuta appannaggio di Volkswagen che, date le proprie dimensioni, poté "permettersi" di commercializzare la Veyron per quasi un decennio in perdita.
La differenza tra le due esperienze sta tutta nella dimensione industriale: mentre negli anni '90 il nanismo italiano assurgeva a sistema ("il piccolo è bello" contrapposto al "grande e inefficiente", soprattutto se statale) la Germania faceva di tutto (alla fine riuscendoci) per imporsi di peso nella competizione globale.
Il resto è appunto retorica dei tempi andati che, per quanto ben confezionata, lascia il tempo che trova.
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