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12/11/2018

Spagna - La “manovra del popolo” potrebbe essere bloccata dagli indipendentisti catalani

Il governo Sanchez-Unidos Podemos sta varando una finanziaria che, se approvata, metterà fine all’austerità e salvaguarderà il Welfare State senza creare tensioni con Bruxelles. Ma c'è lo scoglio degli indipendentisti catalani, il cui voto è decisivo, che minacciano di non sostenere la manovra e mandare il Paese ad elezioni anticipate.

di Steven Forti*

Mentre in Italia ci si dibatte sulla cosiddetta “manovra del popolo” e si arriva allo scontro con le istituzioni europee, in Spagna il nuovo governo socialista, guidato da Pedro Sánchez, ha firmato un accordo con Unidos Podemos per una manovra che, se approvata, metterebbe fine all’austerità salvaguardando il Welfare State senza creare tensioni con Bruxelles. Anzi, la Spagna sta iniziando a giocare un ruolo da protagonista a livello europeo, a fianco del motore franco-tedesco, sostituendo il nostro paese sempre più isolato in ambito internazionale. Roma e Madrid sono agli antipodi, non c’è dubbio. Il cammino è però irto di ostacoli.

Lo scorso 11 ottobre il presidente del governo spagnolo Pedro Sánchez e il segretario generale di Podemos, Pablo Iglesias, firmavano un accordo di bilancio per il 2019. Si tratta di un accordo storico per le sinistre iberiche che si specchiano nel modello portoghese: senza alzare troppo la voce e senza frizioni con Bruxelles, dalla fine del 2015 il governo socialista di António Costa, appoggiato dal Bloco de Esquerda e dal Partido Comunista Portugues, sta portando avanti delle politiche redistributive che hanno avuto degli effetti positivi sia sulla società sia sull’economia lusitana, come dimostrano tutti i dati disponibili. A Madrid si guarda a Lisbona.

Fine dell’austerità e più diritti sociali

L’accordo Psoe-Unidos Podemos prevede oltre 5 miliardi di euro di spesa in più nel 2019 destinati principalmente ai collettivi che più hanno sofferto durante la crisi, come i disoccupati, i lavoratori, i pensionati o i giovani. Si aumenta il salario minimo interprofessionale del 22,3% – da 735 a 900 euro mensili – si legano le pensioni all’inflazione reale – aumenterebbero del 3% nel 2019 – si migliorano gli aiuti per i disoccupati con più di 52 anni, si assegnano 50 milioni di euro per combattere la “povertà energetica” e altri 25 milioni per le mense scolastiche, si aumenta del 40% il budget per gli assegni sociali destinati a persone dipendenti, i fondi per la ricerca si incrementano del 6,7%, si abbassano le tasse universitarie, si equiparano i permessi di maternità e paternità – nel 2021 anche i padri, come le madri, potranno avere 16 settimane di congedo non trasferibili – si modifica la legge sugli affitti – i contratti passerebbero da 3 a 5 anni – permettendo ai comuni di limitarli nel caso di bolle speculative, come sta succedendo nelle grandi città, in primis Barcellona e Madrid. Ai comuni si concede anche di spendere l’avanzo di bilancio – vietato negli ultimi anni dal governo del Partito Popolare – per gli asili nido, misura che si associa all’universalizzazione dell’educazione gratuita fino ai 3 anni di età.

Ma nell’accordo vi sono anche importanti segnali in quanto a diritti sociali, dopo alcune decisioni già prese dall’esecutivo socialista come quella di restituire la copertura sanitaria universale, includendo i migranti, o, proprio in questi giorni, di far pagare alle banche, e non ai clienti, la tassa di bollo sui mutui. Nell’accordo si propone anche di modificare la legge sulla violenza di genere seguendo la proposta fatta da Podemos in Parlamento o di riformare la legge elettorale obbligando tutti i partiti a presentare delle liste in cui si rispetti la parità di genere, le cosiddette “liste cerniera”. Si prevede inoltre la depenalizzazione dei reati di offesa alla corona e ai sentimenti religiosi, l’annullamento dell’articolo del Codice Penale che punisce con il carcere i picchetti negli scioperi, la regolamentazione della pubblicità del gioco d’azzardo, la riforma della “legge bavaglio” e, in futuro, della legge del lavoro approvate dal governo Rajoy. Non è poco. Affatto. Come ha affermato il vicesindaco di Barcellona, Gerardo Pisarello, si tratta di una manovra che “aiuta a riattivare l’economia, a promuovere l’innovazione scientifica e tecnologica e soprattutto a rafforzare i diritti sociali”.

Un vero e proprio accordo di governo

I finanziamenti di queste spese verrebbero principalmente da un incremento delle tasse, in primo luogo aumentando le aliquote Irpef per chi ha un reddito superiore ai 130mila euro all’anno, portando al 15% le imposte sulle società per le grandi imprese e al 18% per il settore finanziario, istituendo una patrimoniale dell’1% per chi possiede una fortuna superiore ai 10 milioni di euro e creando una tassa sulle transazioni finanziarie. Si lavorerebbe poi per una riforma delle partite Iva in modo da legare il pagamento dei contributi alle entrate reali. Insomma, chi più ha più paga. Altro che flat o dual tax. Non è quanto avrebbe voluto Unidos Podemos, ma i passi in avanti sono comunque notevoli.

Non si tratta dunque di una semplice manovra, ma di un vero e proprio accordo di governo che guarda al futuro. È un messaggio importante nella congiuntura europea attuale: Sánchez ha optato per un’alleanza a sinistra e Unidos Podemos ha deciso chiaramente di voler partecipare a un governo con i socialisti. Il tutto senza rompere con Bruxelles. La ministra dell’Economia, Nadia Calviño, che è stata direttrice generale del Bilancio europeo negli ultimi quattro anni, è riuscita già a luglio a ottenere dalla Commissione Europea lo 0,5% del Pil – ossia 6 miliardi di euro in più per la spesa pubblica – rispetto a quanto pattuito dal precedente governo del Pp. Grazie a un’economia che cresce del 2,6% nel 2018 e del 2,2% nel 2019, si riuscirebbe dunque a diminuire il deficit al 2,1% nel 2019 e all’1,9% nel 2020. E il deficit strutturale, secondo le stime di Madrid, si ridurrebbe dello 0,4%. Esattamente il contrario di quanto stimato per l’Italia. Bruxelles si è dimostrata conciliante con il governo spagnolo: il prossimo 21 novembre si avrà la risposta definitiva, ma non si prevedono stravolgimenti.

Lo scoglio dei voti catalani

Se il segnale politico è chiaro, le difficoltà per l’approvazione della manovra dipendono dalla debolezza dell’esecutivo socialista. Non bastano, come a Lisbona, i voti della sinistra: il Psoe governa infatti in minoranza con 84 deputati, Unidos Podemos – la confluenza formata dal partito guidato da Iglesias, Izquierda Unida e le confluenze municipaliste – ne ha 67. Si aggiungono i 4 deputati dei valenzani di Compromís e uno di Nuevas Canarias: si arriverebbe a 156. La maggioranza è a 176. Sono dunque necessari anche i voti dei partiti nazionalisti e indipendentisti catalani e baschi, ossia di tutte le formazioni che hanno scalzato Mariano Rajoy nella mozione di sfiducia della scorsa primavera. Se nel caso del Partido Nacionalista Vasco (Pnv, 5 deputati) non ci dovrebbero essere problemi, per le formazioni catalane è tutta un’altra storia: sia Esquerra Republicana de Catalunya (Erc, 9 deputati) sia il Partit Demòcrata Europeu Català (PdeCat, 8 deputati) hanno dichiarato che non voteranno a favore, dopo un’iniziale disposizione a trattare. La ragione sta nella richiesta della procura spagnola di carcere – dai 15 ai 25 anni – per il reato di ribellione per i dirigenti indipendentisti – in carcere preventivo da oltre un anno – per i fatti dell’ottobre del 2017.

La crisi catalana non è affatto risolta, nonostante i tentativi di distensione avviati da Sánchez negli ultimi mesi. Gli sforzi fatti dai socialisti hanno prodotto risultati positivi, permettendo che, al di là della retorica infiammata dei leader indipendendisti, Barcellona e Madrid abbiano avviato un dialogo, dopo la rottura delle relazioni degli anni precedenti. Ci vuole però del tempo per normalizzare le relazioni istituzionali e il processo ai dirigenti indipendentisti è il principale ostacolo: Sánchez e diversi membri dell’esecutivo socialista hanno dichiarato in più occasioni che considerano esagerata sia la prigione preventiva sia l’accusa di ribellione, ma la procura non ha cambiato il suo parere. Il leader socialista si trova ora a dover gestire una situazione creata ad arte dall’esecutivo di Rajoy che ha scelto di delegare ai tribunali una questione eminentemente politica, come la crisi catalana. La giustizia ha i suoi tempi e i giudici, checché se ne dica, sono indipendenti dal governo, per quanto prevalga una lettura fortemente conservatrice – e criticata da molti giuristi – della questione. Se non lo fossero, con il nuovo esecutivo a Madrid le cose sarebbero cambiate. Il processo inizierà a gennaio e la sentenza si conoscerà solo a giugno, dopo l’election day di maggio, quando si voterà non solo per le europee, ma anche per le comunali e le regionali. È una vera e propria spada di Damocle per Sánchez.

Elezioni anticipate?

Nonostante tutto, il leader socialista presenterà la manovra in Parlamento a inizio dicembre, nella speranza di poter convincere nel frattempo le formazioni indipendentiste a votare a favore entro febbraio. Con il nuovo bilancio la Generalitat catalana otterrebbe oltre 3 miliardi di euro: votare contro sarebbe in tutti i sensi una scelta suicida. Pablo Iglesias si è speso molto in tutto ciò, riunendosi in carcere con Oriol Junqueras, presidente di Erc, e parlando al telefono con Carles Puigdemont, l’ex presidente catalano che muove i fili del Pdecat dal Belgio, dove è fuggito un anno fa. Secondo il leader di Podemos non ha senso continuare al governo senza approvare il bilancio, l’esecutivo si indebolirebbe e l’attesa delle nuove elezioni – previste per la primavera del 2020, ma che potrebbero essere anticipate all’autunno del 2019 – si convertirebbe in un via crucis, tenendo conto della durissima opposizione che stanno facendo le destre del Pp e di Ciudadanos con il possibile ingresso di un terzo incomodo, l’estrema destra di Vox.

La situazione è dunque di grande incertezza: apparentemente Sánchez vuole evitare elezioni anticipate e dichiara che, in caso non ottenga i voti indipendentisti, prorogherà il bilancio dello scorso anno e approverà delle misure via decreto, come nel caso del salario minimo interprofessionale o del limite agli affitti. Gli indipendentisti non si opporrebbero a un sostegno di questo tipo al governo, anche perché non vogliono assolutamente andare a nuove elezioni a inizio 2019 con il rischio del ritorno delle destre al Palacio de la Moncloa. Il problema è che l’indipendentismo non è affatto unito: esiste una lotta sotterranea tra Erc e il Pdecat per l’egemonia nello spazio nazionalista. Tutti attendono le elezioni di maggio per capire quale sarà il nuovo panorama. E la battaglia principale, in Catalogna, sarà quella di Barcellona dove Ada Colau si gioca la conferma al Comune della Ciudad Condal, Erc spera nel sorpasso e l’ex premier francese Manuel Valls, appoggiato da Ciudadanos, cerca di dare la sorpresa. Tutto è legato a doppio filo. Tanto che Colau ha proposto un patto a tre livelli per cercare di sbloccare la situazione: un appoggio degli indipendentisti alla manovra di Sánchez e Iglesias a Madrid e del bilancio del Comune a Barcellona in cambio dell’appoggio dei Comuns – la confluenza di sinistra guidata dalla stessa Colau – all’esecutivo regionale in Catalogna, dove Erc e il Pdecat hanno bisogno di voti visto che gli indipendentisti anticapitalisti della Cup hanno deciso di non sostenere più il governo di Quim Torra. È molto difficile che si risolva il rebus, ma si tenta anche questa via.

I prossimi mesi saranno cruciali. A partire dalle elezioni andaluse del prossimo 2 dicembre, che saranno la prova del fuoco per Sánchez. Il Psoe governa la regione meridionale dalla fine del franchismo, i sondaggi gli sono ancora favorevoli, ma sicuramente non avrà la maggioranza assoluta. L’attuale presidentessa regionale, Susana Díaz, arci-nemica di Sánchez dentro il Partito socialista, ha governato nell’ultima legislatura con l’appoggio esterno di Ciudadanos. Giocherà la stessa carta dopo il 2 dicembre o cercherà il sostegno di Unidos Podemos? Tutti gli scenari sono aperti.

È indubbio che la strada per approvare la manovra frutto dell’accordo tra Psoe e Unidos Podemos è molto in salita. Se si approverà, sarà un grande successo per Sánchez e Iglesias, oltre che un segnale importante per le sinistre europee, anche in vista delle elezioni di maggio. Se non si approverà, rimarrà comunque un simbolo che le sinistre spagnole giocheranno nella prossima campagna elettorale: “questo è il nostro programma. Le destre e gli indipendentisti catalani non ci hanno lasciato metterlo in pratica. Se ci votate, sapete già quello che faremo”. E dimostra come si può combattere l’austerità e difendere il Welfare State senza dover per forza rompere con Bruxelles e disintegrare l’Unione Europea. I margini ci sono. Serve volontà politica. In Portogallo questa volontà c’è stata e i risultati sono tangibili. In Spagna si è trovata la volontà, mancano ora i voti a causa dell’irresponsabilità con cui negli anni scorsi si è gestita la crisi catalana. Ne tengano conto le sinistre europee, compresa quella italiana, evitando di farsi abbindolare dai canti di sirena del sovranismo che non fanno altro che spianare la strada all’estrema destra.

* Ricercatore presso l’Instituto de História Contemporânea dell’Universidade Nova de Lisboa e professore presso l’Universitat Autònoma de Barcelona - @StevenForti

Fonte

Scenari pericolosi almeno quanto l'opinione espressa (benissimo, va riconosciuto) nel testo, che paventa la propria natura conservatrice soltanto in chiusura.

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