Il governo Sanchez-Unidos Podemos sta varando una finanziaria che, se
approvata, metterà fine all’austerità e salvaguarderà il Welfare State
senza creare tensioni con Bruxelles. Ma c'è lo scoglio degli
indipendentisti catalani, il cui voto è decisivo, che minacciano di non
sostenere la manovra e mandare il Paese ad elezioni anticipate.
di Steven Forti*
Mentre in Italia ci si dibatte sulla cosiddetta “manovra del
popolo” e si arriva allo scontro con le istituzioni europee, in Spagna
il nuovo governo socialista, guidato da Pedro Sánchez, ha firmato un
accordo con Unidos Podemos per una manovra che, se approvata, metterebbe fine
all’austerità salvaguardando il Welfare State senza creare tensioni con
Bruxelles. Anzi, la Spagna sta iniziando a giocare un ruolo da
protagonista a livello europeo, a fianco del motore franco-tedesco,
sostituendo il nostro paese sempre più isolato in ambito internazionale.
Roma e Madrid sono agli antipodi, non c’è dubbio. Il cammino è però
irto di ostacoli.
Lo scorso 11 ottobre il presidente del governo spagnolo Pedro
Sánchez e il segretario generale di Podemos, Pablo Iglesias, firmavano
un accordo di bilancio per il 2019. Si tratta di un accordo storico per
le sinistre iberiche che si specchiano nel modello portoghese: senza
alzare troppo la voce e senza frizioni con Bruxelles, dalla fine del
2015 il governo socialista di António Costa, appoggiato dal Bloco de
Esquerda e dal Partido Comunista Portugues, sta portando avanti delle
politiche redistributive che hanno avuto degli effetti positivi sia
sulla società sia sull’economia lusitana, come dimostrano tutti i dati
disponibili. A Madrid si guarda a Lisbona.
Fine dell’austerità e più diritti sociali
L’accordo Psoe-Unidos Podemos prevede oltre 5 miliardi di euro di
spesa in più nel 2019 destinati principalmente ai collettivi che più
hanno sofferto durante la crisi, come i disoccupati, i lavoratori, i
pensionati o i giovani. Si aumenta il salario minimo interprofessionale
del 22,3% – da 735 a 900 euro mensili – si legano le pensioni
all’inflazione reale – aumenterebbero del 3% nel 2019 – si migliorano
gli aiuti per i disoccupati con più di 52 anni, si assegnano 50 milioni
di euro per combattere la “povertà energetica” e altri 25 milioni per le
mense scolastiche, si aumenta del 40% il budget per gli assegni sociali
destinati a persone dipendenti, i fondi per la ricerca si incrementano
del 6,7%, si abbassano le tasse universitarie, si equiparano i permessi
di maternità e paternità – nel 2021 anche i padri, come le madri,
potranno avere 16 settimane di congedo non trasferibili – si modifica
la legge sugli affitti – i contratti passerebbero da 3 a 5 anni –
permettendo ai comuni di limitarli nel caso di bolle speculative, come
sta succedendo nelle grandi città, in primis Barcellona e Madrid. Ai
comuni si concede anche di spendere l’avanzo di bilancio – vietato negli
ultimi anni dal governo del Partito Popolare – per gli asili nido,
misura che si associa all’universalizzazione dell’educazione gratuita
fino ai 3 anni di età.
Ma nell’accordo vi sono anche importanti segnali in quanto a
diritti sociali, dopo alcune decisioni già prese dall’esecutivo
socialista come quella di restituire la copertura sanitaria universale,
includendo i migranti, o, proprio in questi giorni, di far pagare alle
banche, e non ai clienti, la tassa di bollo sui mutui. Nell’accordo si
propone anche di modificare la legge sulla violenza di genere seguendo
la proposta fatta da Podemos in Parlamento o di riformare la legge
elettorale obbligando tutti i partiti a presentare delle liste in cui si
rispetti la parità di genere, le cosiddette “liste cerniera”. Si
prevede inoltre la depenalizzazione dei reati di offesa alla corona e ai
sentimenti religiosi, l’annullamento dell’articolo del Codice Penale
che punisce con il carcere i picchetti negli scioperi, la
regolamentazione della pubblicità del gioco d’azzardo, la riforma della
“legge bavaglio” e, in futuro, della legge del lavoro approvate dal
governo Rajoy. Non è poco. Affatto. Come ha affermato il vicesindaco di
Barcellona, Gerardo Pisarello, si tratta di una manovra che “aiuta a
riattivare l’economia, a promuovere l’innovazione scientifica e
tecnologica e soprattutto a rafforzare i diritti sociali”.
Un vero e proprio accordo di governo
I finanziamenti di queste spese verrebbero principalmente da un incremento delle tasse, in primo luogo aumentando le aliquote Irpef per chi
ha un reddito superiore ai 130mila euro all’anno, portando al 15% le
imposte sulle società per le grandi imprese e al 18% per il settore
finanziario, istituendo una patrimoniale dell’1% per chi possiede una
fortuna superiore ai 10 milioni di euro e creando una tassa sulle
transazioni finanziarie. Si lavorerebbe poi per una riforma delle
partite Iva in modo da legare il pagamento dei contributi alle entrate
reali. Insomma, chi più ha più paga. Altro che flat o dual tax. Non è
quanto avrebbe voluto Unidos Podemos, ma i passi in avanti sono comunque
notevoli.
Non si tratta dunque di una semplice manovra, ma di un vero e
proprio accordo di governo che guarda al futuro. È un messaggio
importante nella congiuntura europea attuale: Sánchez ha optato per
un’alleanza a sinistra e Unidos Podemos ha deciso chiaramente di voler
partecipare a un governo con i socialisti. Il tutto senza rompere con
Bruxelles. La ministra dell’Economia, Nadia Calviño, che è stata
direttrice generale del Bilancio europeo negli ultimi quattro anni, è
riuscita già a luglio a ottenere dalla Commissione Europea lo 0,5% del
Pil – ossia 6 miliardi di euro in più per la spesa pubblica – rispetto a
quanto pattuito dal precedente governo del Pp. Grazie a un’economia che
cresce del 2,6% nel 2018 e del 2,2% nel 2019, si riuscirebbe dunque a
diminuire il deficit al 2,1% nel 2019 e all’1,9% nel 2020. E il deficit
strutturale, secondo le stime di Madrid, si ridurrebbe dello 0,4%.
Esattamente il contrario di quanto stimato per l’Italia. Bruxelles si è
dimostrata conciliante con il governo spagnolo: il prossimo 21 novembre
si avrà la risposta definitiva, ma non si prevedono stravolgimenti.
Lo scoglio dei voti catalani
Se il segnale politico è chiaro, le difficoltà per l’approvazione
della manovra dipendono dalla debolezza dell’esecutivo socialista. Non
bastano, come a Lisbona, i voti della sinistra: il Psoe governa infatti
in minoranza con 84 deputati, Unidos Podemos – la confluenza formata dal
partito guidato da Iglesias, Izquierda Unida e le confluenze
municipaliste – ne ha 67. Si aggiungono i 4 deputati dei valenzani di
Compromís e uno di Nuevas Canarias: si arriverebbe a 156. La
maggioranza è a 176. Sono dunque necessari anche i voti dei partiti
nazionalisti e indipendentisti catalani e baschi, ossia di tutte le
formazioni che hanno scalzato Mariano Rajoy nella mozione di sfiducia
della scorsa primavera. Se nel caso del Partido Nacionalista Vasco (Pnv,
5 deputati) non ci dovrebbero essere problemi, per le formazioni
catalane è tutta un’altra storia: sia Esquerra Republicana de Catalunya
(Erc, 9 deputati) sia il Partit Demòcrata Europeu Català (PdeCat, 8
deputati) hanno dichiarato che non voteranno a favore, dopo un’iniziale
disposizione a trattare. La ragione sta nella richiesta della procura
spagnola di carcere – dai 15 ai 25 anni – per il reato di ribellione per
i dirigenti indipendentisti – in carcere preventivo da oltre un anno –
per i fatti dell’ottobre del 2017.
La crisi catalana non è affatto risolta, nonostante i tentativi di
distensione avviati da Sánchez negli ultimi mesi. Gli sforzi fatti dai
socialisti hanno prodotto risultati positivi, permettendo che, al di là
della retorica infiammata dei leader indipendendisti, Barcellona e
Madrid abbiano avviato un dialogo, dopo la rottura delle relazioni degli
anni precedenti. Ci vuole però del tempo per normalizzare le relazioni
istituzionali e il processo ai dirigenti indipendentisti è il principale
ostacolo: Sánchez e diversi membri dell’esecutivo socialista hanno
dichiarato in più occasioni che considerano esagerata sia la prigione
preventiva sia l’accusa di ribellione, ma la procura non ha cambiato il
suo parere. Il leader socialista si trova ora a dover gestire una
situazione creata ad arte dall’esecutivo di Rajoy che ha scelto di
delegare ai tribunali una questione eminentemente politica, come la
crisi catalana. La giustizia ha i suoi tempi e i giudici, checché se ne
dica, sono indipendenti dal governo, per quanto prevalga una lettura
fortemente conservatrice – e criticata da molti giuristi – della
questione. Se non lo fossero, con il nuovo esecutivo a Madrid le cose
sarebbero cambiate. Il processo inizierà a gennaio e la sentenza si
conoscerà solo a giugno, dopo l’election day di maggio, quando si voterà
non solo per le europee, ma anche per le comunali e le regionali. È una
vera e propria spada di Damocle per Sánchez.
Elezioni anticipate?
Nonostante tutto, il leader socialista presenterà la manovra in
Parlamento a inizio dicembre, nella speranza di poter convincere nel
frattempo le formazioni indipendentiste a votare a favore entro
febbraio. Con il nuovo bilancio la Generalitat catalana otterrebbe oltre
3 miliardi di euro: votare contro sarebbe in tutti i sensi una scelta
suicida. Pablo Iglesias si è speso molto in tutto ciò, riunendosi in
carcere con Oriol Junqueras, presidente di Erc, e parlando al telefono
con Carles Puigdemont, l’ex presidente catalano che muove i fili del
Pdecat dal Belgio, dove è fuggito un anno fa. Secondo il leader di
Podemos non ha senso continuare al governo senza approvare il bilancio,
l’esecutivo si indebolirebbe e l’attesa delle nuove elezioni – previste
per la primavera del 2020, ma che potrebbero essere anticipate
all’autunno del 2019 – si convertirebbe in un via crucis, tenendo conto
della durissima opposizione che stanno facendo le destre del Pp e di
Ciudadanos con il possibile ingresso di un terzo incomodo, l’estrema
destra di Vox.
La situazione è dunque di grande incertezza: apparentemente
Sánchez vuole evitare elezioni anticipate e dichiara che, in caso non
ottenga i voti indipendentisti, prorogherà il bilancio dello scorso anno
e approverà delle misure via decreto, come nel caso del salario minimo
interprofessionale o del limite agli affitti. Gli indipendentisti non si
opporrebbero a un sostegno di questo tipo al governo, anche perché non
vogliono assolutamente andare a nuove elezioni a inizio 2019 con il
rischio del ritorno delle destre al Palacio de la Moncloa. Il problema è
che l’indipendentismo non è affatto unito: esiste una lotta sotterranea
tra Erc e il Pdecat per l’egemonia nello spazio nazionalista. Tutti
attendono le elezioni di maggio per capire quale sarà il nuovo panorama.
E la battaglia principale, in Catalogna, sarà quella di Barcellona dove
Ada Colau si gioca la conferma al Comune della Ciudad Condal, Erc spera
nel sorpasso e l’ex premier francese Manuel Valls, appoggiato da
Ciudadanos, cerca di dare la sorpresa. Tutto è legato a doppio filo.
Tanto che Colau ha proposto un patto a tre livelli per cercare di
sbloccare la situazione: un appoggio degli indipendentisti alla manovra
di Sánchez e Iglesias a Madrid e del bilancio del Comune a Barcellona in
cambio dell’appoggio dei Comuns – la confluenza di sinistra guidata
dalla stessa Colau – all’esecutivo regionale in Catalogna, dove Erc e il
Pdecat hanno bisogno di voti visto che gli indipendentisti
anticapitalisti della Cup hanno deciso di non sostenere più il governo
di Quim Torra. È molto difficile che si risolva il rebus, ma si tenta
anche questa via.
I prossimi mesi saranno cruciali. A partire dalle elezioni
andaluse del prossimo 2 dicembre, che saranno la prova del fuoco per
Sánchez. Il Psoe governa la regione meridionale dalla fine del
franchismo, i sondaggi gli sono ancora favorevoli, ma sicuramente non
avrà la maggioranza assoluta. L’attuale presidentessa regionale, Susana
Díaz, arci-nemica di Sánchez dentro il Partito socialista, ha governato
nell’ultima legislatura con l’appoggio esterno di Ciudadanos. Giocherà
la stessa carta dopo il 2 dicembre o cercherà il sostegno di Unidos
Podemos? Tutti gli scenari sono aperti.
È indubbio che la strada per approvare la manovra frutto
dell’accordo tra Psoe e Unidos Podemos è molto in salita. Se si
approverà, sarà un grande successo per Sánchez e Iglesias, oltre che un
segnale importante per le sinistre europee, anche in vista delle
elezioni di maggio. Se non si approverà, rimarrà comunque un simbolo che
le sinistre spagnole giocheranno nella prossima campagna elettorale:
“questo è il nostro programma. Le destre e gli indipendentisti catalani
non ci hanno lasciato metterlo in pratica. Se ci votate, sapete già
quello che faremo”. E dimostra come si può combattere l’austerità e
difendere il Welfare State senza dover per forza rompere con Bruxelles e
disintegrare l’Unione Europea. I margini ci sono. Serve volontà
politica. In Portogallo questa volontà c’è stata e i risultati sono
tangibili. In Spagna si è trovata la volontà, mancano ora i voti a causa
dell’irresponsabilità con cui negli anni scorsi si è gestita la crisi
catalana. Ne tengano conto le sinistre europee, compresa quella
italiana, evitando di farsi abbindolare dai canti di sirena del
sovranismo che non fanno altro che spianare la strada all’estrema
destra.
* Ricercatore presso l’Instituto de História Contemporânea
dell’Universidade Nova de Lisboa e professore presso l’Universitat
Autònoma de Barcelona - @StevenForti
Fonte
Scenari pericolosi almeno quanto l'opinione espressa (benissimo, va riconosciuto) nel testo, che paventa la propria natura conservatrice soltanto in chiusura.
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