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13/11/2018

Stan Lee, mitologia a fumetti della working class

Non credo che Stan Lee fosse quello che si può definire un “compagno”. Penso anzi che abbia contribuito a quella visione distorta (culturale, economica, immaginaria... definitela come volete...) di quella strana cosa che chiamiamo il “sogno americano”.

Definizione fuorviante: perché nazionalizza una costruzione ideologica che fa parte di una società globale, che è quella sulla quale si innesta la rappresentazione del “tardo capitalismo”.

Va bene, queste sono speculazioni, direte voi. Allora, torno al punto: Stan Lee, dicevo, è (era) uno uomo del suo tempo. Un impresario dell’industria culturale, un americano del tutto inserito nelle logiche e nei pregiudizi del mondo occidentale. Però... c’è un però.

Stan Lee era indubbiamente dotato di una fervida immaginazione, quell’immaginazione che gli permise di creare una figura di eroe lontana dagli Ercoli della classicità; lontana dai Superman venuti dallo spazio profondo. Stan Lee immagina un supereroe che veniva dal Queens, da uno dei quartieri di New York che all’epoca era un quartiere operaio... come Bagnoli, come Tamburi... si proprio così.

Peter Parker, l’Uomo Ragno, era un eroe della working class statunitense, una fetta di popolazione che dai fumetti non era mai stata rappresentata. Era un orfano, viveva con uno zio che era stato licenziato e che tentava di sbarcare il lunario con lavoretti saltuari.

Peter Parker è un ragazzo di 17 anni, non un uomo fatto, che da un giorno all’altro si trova di fronte alla possibilità di fare cose straordinarie, ma allo stesso tempo di fronte a responsabilità enormi: provvedere all’economia della famiglia, lavorare e studiare contemporaneamente.

Peter Parker è un ragazzo che ottiene un grandissimo potere, ma allo stesso tempo non può goderne in maniera indiscriminata, ma deve utilizzarlo imparando il senso della responsabilità. Io non so se questa è l’apoteosi dell’ideale yankee, oppure una cosa di “sinistra”. So però che può farci riflettere sulla nostra quotidianità e sulla nostra condizione, sul nostro potenziale e sul modo in cui possiamo usarlo.

Mi sono innamorato dell’Uomo ragno a 5 anni. Mi colpirono i cartoni animati, e in particolare quegli occhi bianchi della maschera... chissà poi perché. A 11 anni, mi innamorai dei fumetti, di quelle storie ambientate in una metropoli nera, pericolosa, e ingiusta come poteva essere la New York degli anni ’90.

Oggi la Marvel è diventata una della più grandi “industrie culturali” del mondo, uno di quei centri di riproduzione ideologica dell’esistente, e forse ha meno stimoli critici da dare a un ragazzino di 12 anni. Però, io voglio ricordare le storie che mi hanno accompagnato, la sensazione che avevo di leggere qualcosa di diverso.

Voglio, in qualche modo, ricordare Stan Lee, una specie di Omero del nostro tempo, uno che non vedeva precisamente le cause delle ingiustizie, ma che ugualmente ha provato a raccontarle.

Riposa bene, Stan. Forse anche tu, adesso, sarai in un posto fatto di carta, e popolato da eroi giusti, e questo posto, infondo, lo hai costruito tu con la tua immaginazione.

Noi rimaniamo qui, provando a dare la forma giusta alla realtà.

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