Che l’intento delle varie riforme del passato, in ultimo della cosiddetta “Buona scuola” di Renzi, fosse quello di trasformare gradualmente il funzionamento della scuola in un’impianto di tipo aziendale, è purtroppo una cosa risaputa. Il preside è diventato una figura modellata sul manager, mentre i vari docenti e gli stessi alunni sono sempre più considerati come “risorse umane”,
anche per mezzo dell’introduzione dell’alternanza scuola-lavoro. La
scuola, come del resto l’università, da luogo di stampo umanistico in
cui vengono messi in gioco, in modo sinergico, il sapere e
l’apprendimento, è ormai una realtà in cui predominano gli aspetti burocratici e formali,
all’interno di un sistema modellato sui meccanismi di produzione
capitalistica e asservito all’ostentato utilizzo delle cosiddette ‘nuove
tecnologie’.
Sembra proprio che l’emergenza dovuta alla diffusione del
Coronavirus abbia rappresentato un significativo colpo di grazia per gli
ultimi baluardi di resistenza di qualsiasi forma di sapere autentico
all’interno delle strutture scolastiche. La didattica a
distanza, ormai considerata come un metodo di insegnamento
‘normalizzato’ (da usarsi, quindi, anche al di fuori dell’emergenza),
sta introducendo un nuovo assetto di potere all’interno delle scuole. Essa
rafforza infatti l’idea della scuola come azienda, dei docenti come
‘risorse umane’, come figure professionali legate all’universo
manageriale molto simili agli impiegati di una grande azienda privata.
Il preside, investito del potere di attuare scelte personali che
scavalcano le istanze della scuola pubblica, viene sempre più assimilato
alla figura del manager, ed è visto come un leader aziendale. Questa
graduale trasformazione – che, lo ripetiamo, era già iniziata – si sta
accelerando notevolmente grazie all’emergenza e alla conseguente
necessità di rivedere praticamente tutta l’organizzazione scolastica,
dalla didattica agli spazi fisici delle aule. L’introduzione
della didattica a distanza come una pratica pressoché normale non è
altro che il definitivo asservimento dell’istruzione alle ‘nuove
tecnologie’, le quali mettono in gioco più o meno oscuri rapporti con le
grandi lobby dell’informatica, avviando anche una inestricabile
dinamica di potere. La scuola altro non sarebbe, quindi, che
un’azienda qualsiasi che si affida a giganti industriali
dell’informatica che detengono anche un innegabile potere politico ed
economico.
Eppure, l’educazione vera è qualcosa di ben diverso da queste interfacce tecnologiche che si trascinano dietro oscure logiche di potere. L’educazione
vera è la bellezza del rapporto interpersonale fra docente e allievo, è
la profonda umanità insita in questo rapporto. Tutto ciò che sta
avvenendo adesso sta cancellando inesorabilmente qualsiasi retaggio
umanistico (e, si potrebbe aggiungere, anche umano) nella didattica. Un
buon docente, ormai, non è più quello colto e preparato, ma
semplicemente quello che sa utilizzare bene le nuove tecnologie.
Un tecnico, insomma. Non sono poi troppo lontani i tempi in cui non ci
sarà più bisogno di insegnanti in carne ed ossa (inutili risorse umane),
i quali saranno sostituiti da macchine e robot.
Una progressiva aziendalizzazione della scuola sta avvenendo anche a livello linguistico. Anche nella scuola si sta ormai introducendo il cosiddetto aziendalese: un misto di gergo aziendale italiano e inglese, linguaggio burocratico e terminologia tecnologico-scientifica.
In esso predominano i tecnicismi come, ad esempio, “interfacciarsi” o
“monitorare” che molto spesso sono anche prestiti integrali
dall’inglese. Qualsiasi corso di formazione per docenti, sia sulla
didattica in generale sia sulle nuove tecnologie, è infarcito di questi
termini. Ormai, anche nel mondo della scuola, come in una azienda si
preferisce team leader o group head a “capogruppo”, feedback a “risposta” o “riscontro”, mission a “obiettivo” e vision
a “punto di vista”. L’influsso del burocratese, la lingua
giuridico-amministrativa, è evidente invece nella preferenza per le
locuzioni preposizionali (“con l’ausilio di”, “a mezzo di”, “nella
persona di”) rispetto alle preposizioni semplici.
Ad esempio, possiamo leggere questo brano (Le proposte ANP per la riapertura della scuole a settembre)
tratto dal sito ANP (Associazione nazionale dirigenti pubblici), in
cui, utilizzando tale gergo, viene resa nota la necessità di
aziendalizzare sempre di più la scuola: “I docenti dovranno
volgere decisamente la loro attività alla promozione dell’apprendimento
autentico, attraverso un approccio di school improvement, ossia
attraverso comportamenti di agevolazione del processo di formazione in
uno scenario orientato alla cultura della competenza. L’introduzione di
un vero middle management di supporto al dirigente non appare più
rinviabile”. Altri brani simili si possono leggere nel medesimo articolo a questo link: Le proposte anp per la riapertura delle scuole a settembre.
Sempre nell’articolo citato sono presenti innumerevoli parole inglesi che fanno parte di quella terminologia tecnico-scientifica largamente utilizzata dalle aziende. Le elenco qui in ordine di occorrenza: e-government, media education, school improvement, middle management (tre volte), device (otto volte),
governance, web, plafond, ebook, gigabyte, team, repository, feedback,
LMS free, flipped classroom, privacy, on line, range, leader, design
thinking, setting, tutoring, peer to peer, feedback, team, lunch box,
monitor, full HD, document camera, optical, stakeholders. È stato inoltre creato un nuovo acronimo
per indicare la didattica in presenza (che dovrebbe essere normale), da
contrapporre all’acronimo DAD (didattica a distanza), cioè DIP.
La nostra convinzione che l’emergenza del Coronavirus abbia
rappresentato un vero e proprio cacio sui maccheroni, come si suol dire,
per un’ulteriore aziendalizzazione della scuola, viene ribadita dalle
conclusioni del documento: “In conclusione, la minaccia
costituita dal Covid-19 può essere un’opportunità per apportare al
nostro sistema educativo consistenti miglioramenti strutturali ma il
decisore politico deve assumersi rapidamente la responsabilità delle
scelte necessarie”.
Il gergo aziendalese si avvicina molto a quella che Italo Calvino, in un suo articolo del 1965 pubblicato su “Il Giorno”, definisce come “antilingua”.
Come scrive Calvino, avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e
consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e telegiornali
scrivono, pensano e parlano in una “antilingua” inesistente.
L’antilingua sarebbe inoltre caratterizzata da un vero e proprio “terrore semantico” per il significato, mettendo in atto la volontà di rifuggire da vocaboli che abbiano un chiaro e semplice significato. Calvino
afferma che “dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire
ho «fatto», ma deve dire «ho effettuato» – la lingua viene uccisa”.
L’antilingua esclude sia la comunicazione più semplice sia la
profondità espressiva: per questo, secondo Calvino, se trionferà
l’antilingua, “l’italiano scomparirà dalla carta geografica d’Europa
come uno strumento inservibile”.
Poco prima di Calvino, anche Pier Paolo Pasolini aveva affrontato il tema del mutamento della lingua italiana avvenuto in seguito al boom economico.
Secondo Pasolini, a partire dalla fine degli anni cinquanta, all’asse
linguistico Roma-Firenze-Napoli si è sostituito quello Torino-Milano,
centri irradiatori del nuovo linguaggio tecnologico, una nuova
“tecnolingua” dai caratteri fondamentalmente negativi: “La
«comunicatività» del mondo della scienza applicata, dell’eternità
industriale, si presenta come strettamente pratica. E quindi mostruosa.
Nessuna parola avrà senso che non sia funzionale entro l’ambito della
necessità: sarà inconcepibile l’espressione autonoma di un sentimento
«gratuito»”.
Calvino, riprendendo queste teorie di Pasolini, afferma poi che se
tale linguaggio tecnologico si innesta sull’antilingua, “ne subirà
immediatamente il contagio mortale e anche i termini «tecnologici» si
tingeranno del colore del nulla”.
Ebbene, è proprio quello che è successo e sta succedendo
oggi, a ben più di cinquant’anni di distanza dalle teorie di Calvino e
Pasolini: l’antilingua aziendalese si è mescolata, in
un contagio mortale, con il linguaggio tecnologico relativo alle
cosiddette ‘nuove tecnologie’. Il Covid ha contagiato mortalmente anche
la lingua, e per di più, la lingua utilizzata dalle scuole, le quali
dovrebbero rappresentare gli ultimi baluardi della cultura linguistica
di una nazione. Una cultura che sta scivolando inesorabilmente verso il
nulla. Ci aspetta un futuro crudele, quasi quanto quello raccontato da Ray Bradbury in Fahrenheit 451,
in cui un potere pervasivo e diffuso brucia e distrugge tutti i libri.
Ma anche un futuro di lotta per la sopravvivenza dell’idea stessa di
cultura.
Guy van Stratten
Riferimenti bibliografici:
Italo Calvino, L’antilingua, ora in Id., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Mondadori, Milano, 1995.
Pier Paolo Pasolini, Nuove questioni linguistiche, ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, Mondadori, Milano, 1999.
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