Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

03/06/2020

Da Minneapolis alla Palestina, il razzismo è nemico comune

Le immagini del soffocamento di George Floyd sotto il ginocchio di un ufficiale di polizia razzista che ha ignorato le sue suppliche dell'uomo, sono sconvolgenti per la coscienza.

Questo video, che si diffonde come un fuoco selvaggio fra gli Americani e in tutto il globo, ha mostrato l'orrore che ancora si annida nel mondo, a dispetto del presunto progresso dell’umanità nella civiltà e nei valori sociali.

Dignità e uguaglianza sono state a lungo sancite nel diritto internazionale e negli atti, ma quelli che hanno il potere e la ricchezza agiscono come se fossero al di sopra della legge, sicuri che non dovranno accollarsi nessuna responsabilità.

In Palestina, sappiamo molto bene che cosa significa essere discriminati sulla base di caratteristiche che non si sono scelte: razza, colore o religione.

Abbiamo sperimentato una lunga e amara sofferenza per non essere "nati ebrei" in una terra occupata dal movimento sionista, che con la forza ha espulso la popolazione nativa palestinese.

Il movimento sionista ha sottoposto i palestinesi che sono rimasti a tutti i tipi di discriminazione razziale e abusi, per costringerli a fare posto ai coloni di un altro gruppo etnico che non aveva abitato quella terra se non un centinaio di anni prima.

Pulizia etnica

Nel 1948, la catastrofe del popolo palestinese ebbe inizio quando il movimento sionista – un’estensione del colonialismo d’insediamento bianco sostenuto dal governo britannico – realizzò una massiccia campagna di pulizia etnica.

Durante la Nakba, gruppi armati sionisti distrussero più di 500 città e villaggi palestinesi e commisero decine di massacri.

Lo spostamento forzato di circa 800.000 palestinesi ha aperto la strada alla creazione di Israele sulle rovine della vita della popolazione palestinese.

La catastrofe non finì quell’anno. Continua ancora oggi, con politiche sistematiche volte a scacciare la popolazione rimanente: furti di terre, saccheggi di risorse e ingabbiamento della popolazione indigena in enclavi separate l’una dall’altra.

Discriminazione legale

L’uccisione di George Floyd, un uomo afroamericano, mette a nudo la brutalità e il pericolo che deriva da una cultura profondamente radicata nel razzismo.

La situazione dei palestinesi di fronte al progetto coloniale sionista non è meno difficile: la supremazia ebraica e la discriminazione razziale sono radicate nella legge costituzionale di Israele.

Israele si proclama uno Stato ebraico, che per definizione non è uno Stato per tutti i suoi cittadini.

Anche i Palestinesi con cittadinanza israeliana vivono sotto 65 leggi che sono progettate per discriminarli e mantenere l’egemonia ebraico-israeliana.

Nel 1950, subito dopo la fondazione di Israele, il parlamento israeliano approvò la Legge del Ritorno.

Questo garantisce a qualsiasi persona al mondo che sia ritenuta ebrea da Israele il diritto di stabilirsi in Israele – e nella Cisgiordania occupata – e di ricevere automaticamente la cittadinanza.

Per quanto riguarda i Palestinesi, Israele li ha sottoposti alla cosiddetta Legge sulla Proprietà degli Assenti, che approvò lo stesso anno.

Con questa legge, Israele si autorizzava a sequestrare la terra e le proprietà dei rifugiati palestinesi, mentre impediva loro di tornare nei luoghi da cui erano stati espulsi o erano fuggiti.

I colonie ebrei che arrivavano nel paese erano i beneficiari della legge, che ha permesso loro di prendere in consegna le proprietà e le case dei palestinesi.

Il resto della popolazione palestinese è ancora oggetto di discriminazione razziale ai sensi della legge israeliana.

La carta d’identità di una persona inserisce nella gerarchia ufficiale di Israele dove può vivere, chi può sposare, la qualità della sua educazione e le opportunità lavorative, l’accesso ai servizi di base e il trattamento che può ricevere dalla polizia.

Essere ebreo o palestinese è una distinzione cruciale in merito a questi diritti, anche se in entrambi i casi si tratta di cittadini di Israele.

Valori comuni

L’alleanza strategica tra Stati Uniti e Israele è radicata in storie simili di espulsione di popoli indigeni, colonialismo d’insediamento e razzismo.

Gli Stati Uniti hanno una storia oscura di genocidio dei nativi americani, schiavitù degli Africani e discriminazione razziale. Mentre il razzismo legalizzato può avere una fine, il relativo effetto persiste culturalmente, socialmente ed economicamente.

Gli Stati Uniti vedono Israele come il proprio alleato naturale perché hanno origini e storie coloniali simili.

Allo stesso modo Israele vede gli Stati Uniti come una fonte di legittimità delle sue politiche, date le somiglianza storiche e attuali dei paesi.

Mentre il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti ha delegittimato la discriminazione formale – anche se il razzismo sistemico persiste – i Palestinesi soffrono ancora sotto un sistema di razzismo legalizzato, espulsione e confinamento nei ghetti.

Questo sistema ci nega i diritti più elementari di cui godono le persone di tutto il mondo, come la libertà di movimento, il diritto all’istruzione e all’assistenza medica e la capacità di soddisfare bisogni di base.

La legge israeliana afferma che il “diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale” nella Palestina storica è “unico per il popolo ebraico”.

Infatti, ciò che unisce i razzisti in ogni luogo è la convinzione che essi hanno caratteristiche superiori a quelle di una razza o religione diversa. Ciò significa che la lotta contro ogni forma di discriminazione razziale deve essere globale.

È quindi un dovere per tutti noi, e specialmente per quelli di noi che vivono con il razzismo, elevare la nostra consapevolezza e la nostra voce contro qualsiasi attacco alla dignità umana in qualsiasi luogo.

Ahmed Abu Artema è uno scrittore che vive a Gaza, ricercatore presso il Centro per gli studi politici e di sviluppo. È uno degli organizzatori della Grande Marcia del Ritorno.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento