In più, c’è questo ordine che arriva dall’alto e impone di chiamare le cose con nomi che significano altro, ma molto più rassicuranti. Come chiamare “democrazia” un luogo in cui l’esercito spara sui propri concittadini e dove si progetta di dichiarare “terroristi” gli antifascisti…
Specie in materia di cose economiche e di “aiuti europei” la disinformazione nascosta dietro “paroline dolci” è pressoché universale. Persino in qualche settore di compagneria che si ritiene ben informato.
E allora è forse il caso di farci aiutare nell’analisi dei fatti, documenti e numeri alla mano, in modo che esprimere opinioni, dopo, sia una prova di indipendenza intellettuale anziché di asservimento al chiacchiericcio mainstream.
Con la sicumera paranazista che gli è propria, per esempio, il neopresidente di Confindustria pretende – tra le molte altre cose – che il governo faccia immediatamente ricorso al Mes (Meccanismo europeo di stabilità). Si tratta del cosiddetto “fondo salva-stati”, applicato in modo mortale contro la povera Grecia dal 2015, che giustamente suscita un moto di terrore in chiunque possieda il dono della ragione.
Vero è che – per il momento – l’Eurogruppo ha stabilito che gli eventuali prestiti del Mes non farebbero scattare tutte le “condizionalità” previste dal trattato in tempi ordinari. Ma resterebbero in piedi, a discrezione del direttore del Mes e della Commissione europea, tutti gli altri vincoli rispetto al debito pubblico dei singoli paesi. E se si chiede un prestito, il debito aumenta...
Quindi perché il presidente di Confindustria intima militarmente a un governo già molto servile di ricorrere a questa fonte di finanziamento?
Lungi da noi il pensare che, siccome il Mes potrebbe finanziare al momento solo le spese sanitarie, Bonomi possa in qualche misura avvantaggiarsene personalmente (è titolare della Synopo, azienda di apparecchi elettromedicali…), ma la sua fulminante e “non classica” ascesa alla testa degli industriali qualche dubbio lo solleva.
Di sicuro, però, si può dire che il problema di restituire quei prestiti, con tutti i vincoli che ne derivano per la spesa pubblica dei prossimi anni, non è affare degli industriali: è un problema dello Stato e dei cittadini che pagano le tasse. Ossia quasi soltanto dei lavoratori dipendenti e pensionati, visto che gli industriali qualche attitudine all’evasione ce l’hanno e quando proprio vogliono farla pulita mettono la sede fiscale in un paese ancora più “amichevole”.
Risolto questo dubbio, chiniamoci di nuovo sul Recovery Fund, dipinto per qualche ora come la ciambella di salvataggio in cui sperare (“soldi a fondo perduto”) e ora rimasto solo come slogan tranquillizzante in cui nessuno vuol guardare dentro.
Ci facciamo aiutare da Guido Salerno Aletta, esperto editorialista di Milano Finanza e TeleBorsa, che se l’è studiato a fondo facendo i calcoli che sono necessari.
In sintesi estrema, spiega su TeleBorsa, “A Fondo perduto, ci sono solo i versamenti dell’Italia all’UE: altri 14,2 miliardi di euro”.
Ohibò, ma non dovevano darci 170 miliardi, euro più, euro meno?
Sì, certo. Il problema viene da chi ce li mette, quei miliardi; in che modo si trovano, con quali strumenti e con quali obblighi (visto che la Bce, al contrario della Fed o della BoE, o della BoJ, ecc. non è una banca centrale “normale”, ossia un prestatore di ultima istanza anche dello Stato o degli Stati).
E qui l’analisi delle tabelle fornite dalla stessa Commissione Europea non lascia spazio ai sogni.
Per i prossimi sette anni “il budget di spesa dell’Unione europea sarà incrementato di 750 miliardi di euro. Di questi, 500 miliardi saranno erogati come aiuti a Fondo perduto, mentre altri 250 miliardi saranno concessi a titolo di prestito.”
Domanda: chi verserà questi 750 miliardi al bilancio europeo, tenendo conto che questa somma si aggiungerà ai circa 1.100 miliardi già previsti nel Quadro finanziario?
Beh, trattandosi di un bilancio comune, quei soldi ce li devono mettere i soci, come hanno sempre fatto. Stavolta però il bilancio cresce e dunque: “Per raccogliere tra i Paesi Membri i 750 miliardi di euro del Programma straordinario, in questo periodo settennale, la Commissione propone di raddoppiare le entrate proprie dell’Unione, portandole al 2% del PIL.”
I singoli Stati verranno “aiutati” a trovare questi soldi supplementari imponendo nuove tasse, stavolta europee (aumento dell’Iva, sulla plastica e altri inquinanti).
L’Italia, in particolare, ”dovrà versare 96,3” di questi 750 miliardi aggiuntivi. C’è scritto nero su bianco sulla Table A1 Allocation Key, allegata al “Commission Staff Working Document“, (Brussels 27.5.2020, SWD(2020) 98 final).
Basta leggere, prima di parlare...
Sì, direbbe un europeista informato, “però ce ne daranno 170”.
In quella tabella c’è scritto 153, con 81,8 miliardi di grants (a fondo perduto) e 71,2 di loans (prestiti da restituire).
Gentiloni, poi, ha detto (ma non c’è scritto nel documento ufficiale) che la parte in prestiti dovrebbe essere di 90 miliardi. E così si arriva ai famosi 170, anzi 172.
Prima osservazione matematica: se versiamo (a rate o in altro modo) 96,3 miliardi e ne riceveremo a fondo perduto solo 81,8, lo scarto è appunto di 14,5 miliardi. Lo 0,8% del Pil 2019 (e chissà quanto del 2020)...
Come sempre, verrebbe da aggiungere, perché l’Italia è contributore netto della Ue (versa sempre più di quanto riprende). Calcola Salerno Aletta: “Nel 2018, ad esempio, abbiamo versato tasse per 17 miliardi di euro ricevendo fondi per 10,3 miliardi. Il costo netto è stato dunque di ben 6,7 miliardi di euro. Nei sette anni del prossimo Quadro finanziario ci rimetteremo all’incirca 47 miliardi di euro.”
Che aggiunti ai 14,5 di prima fanno 61,5 miliardi.
Dove sarebbe l’affare? In effetti “se l’Italia dovesse chiedere prestiti europei per 71 miliardi di euro, come ci viene generosamente prospettato, non faremmo altro che indebitarci per una somma che abbiamo praticamente già versato per intero.”
Geniale, non credete?
Anche su questo “fiume di soldi” (pubblici, naturalmente) sono appuntati gli appetiti avidi di Confindustria e di Carlo Bonomi, che spingono anche la Lega e la Meloni verso un “governissimo” al posto di (ma anche insieme, va bene lo stesso) questi “mollaccioni” esitanti.
Non vorrebbero proprio che neanche un milioncino finisse in tasche diverse dalle proprie. Tanto, per la restituzione e il versamento, ci siamo già noi...
Una sola avvertenza sembra necessaria: qui il nazionalismo non c’entra niente. Stiamo facendo i conti su quanto esce e quanto entra nelle casse dello Stato dove tutti noi versiamo le tasse detratte dalla busta paga o dalla pensione...
Il ginocchio degli industriali si affianca a quello dell’Unione Europea. Il collo e la faccia a terra sono i nostri.
P.S. Se il meccanismo non dovesse risultarvi chiaro, abbiamo preparato un’altra esposizione, che ci sembra abbastanza semplice anche per i non addetti ai lavori economici o ai ponderosi trattati internazionali. Neanche da legge, basta ascoltare...
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