di Michele Giorgio – Il Manifesto
Considerato uno
degli attivisti più importanti delle proteste di piazza contro l’intera
classe politica libanese, senza eccezioni, Nizan Hassan l’altra sera ha
commentato senza peli sulla lingua l’offerta di aiuto al Libano giunta
da Israele. «Vaffanculo. Fanculo e basta. Le pubbliche relazioni
non laveranno i crimini di 70 anni del vostro Stato etnico coloniale ed
espansionista. Se avete buone intenzioni, allora investitele per porre
fine all’apartheid, all’occupazione e alle guerre e lasciate la nostra
miseria fuori dal vostro patetico whitewashing», ha twittato mentre a Beirut si scavava alla ricerca di superstiti all’esplosione.
L’analista Omar Baddar invece ha ricordato la pioggia di bombe a
grappolo che Israele ha riversato sul Libano del sud durante la guerra
del 2006 e che ha reso invalidi molti civili libanesi, tra i quali
bambini.
Mentre Hassan, Baddar e altri libanesi gridavano il proprio
sdegno, i media di mezzo mondo pubblicavano la foto della facciata del
Comune di Tel Aviv, in piazza Rabin, illuminata con i colori della
bandiera libanese. Sul Libano è intervenuto anche Benyamin
Netanyahu. «Prima di tutto, in nome del governo israeliano, invio le
nostre condoglianze al popolo libanese... C’è stata una grande catastrofe
in Libano. Siamo pronti ad inviare assistenza umanitaria in quel paese»,
ha detto il premier, mentre la tv pubblica Kan riferiva che Israele è in una fase di «discussioni avanzate» con l’Onu per trasferire materiale medico al Libano.
Un aiuto “peloso” nel giudizio di tanti nel paese dei cedri dove non
si sono rimarginate le ferite per guerre, occupazioni militari e raid
israeliani che – con la motivazione della «autodifesa attiva contro il
terrorismo» del movimento sciita filo iraniano Hezbollah e di gruppi
palestinesi – hanno causato migliaia di morti e feriti e distruzioni
immense. Non sono state risparmiate le infrastrutture civili,
neppure le centrali elettriche (l’attacco a quella di Jiyeh, nel luglio
2006, provocò un disastro ambientale). Molti ricordano ancora il 28
dicembre 1968 quando un’unità di elite israeliana fece esplodere
nell’aeroporto di Beirut 12 aerei di linea di compagnie libanesi.
Sempre per «autodifesa», l’esercito israeliano per 22 anni ha
occupato un’ampia fascia di territorio meridionale libanese, ha
lanciato vaste operazioni militari, avviato due guerre (1982 e 2006),
circondato e bombardato Beirut, colpito Sidone, Tiro, Tripoli e
altre città e compiuto dozzine di esecuzioni mirate di libanesi e
palestinesi. Senza dimenticare la strage dei profughi di Sabra e Shatila
compiuta da miliziani di destra libanesi nel 1982 sotto gli occhi dei
militari israeliani.
Il giornalista Gideon Levi ieri sul giornale Haaretz ricordava la “Dottrina Dahiya”, dal nome della periferia meridionale di Beirut. Quella zona tra
luglio e agosto del 2006 vide l’aviazione israeliana ridurre in un
cumulo di macerie i quartieri popolari di Haret Harek e Bir
Abed, roccaforti del movimento Hezbollah che giorni prima aveva lanciato
un attacco sul confine uccidendo alcuni soldati israeliani.
Va però detto che l’aiuto degli israeliani una porzione non
insignificante di libanesi lo accetterebbe molto volentieri. Non per
motivi umanitari, ma per ragioni politiche. Non è un mistero che Israele
sia visto come un alleato da molti cristiani maroniti e più di recente
anche da musulmani sunniti, che addossano sui propri
connazionali sciiti legati a Hezbollah e sui filo siriani la
responsabilità dei gravi problemi del paese.
Non si tratta di un fenomeno nuovo, frutto del crescente disinteresse
arabo verso la causa palestinese e la «resistenza». È cominciato ben
prima della nascita di Israele. I proto-sionisti Moses
Montefiori e Adolphe Cremieux, furono tra le prime personalità europee a
rispondere alle richieste di aiuto dei maroniti nel 1860 durante quella
che è nota come la guerra del Monte Libano tra cristiani e drusi.
Già allora i maroniti – molti di loro oggi come allora si
considerano non arabi ma discendenti diretti di Fenici e Crociati, e si
sentono più fratelli di Emmanuel Macron che dei libanesi sciiti –
individuarono nel movimento sionista un alleato contro la supremazia
numerica degli “arabi”, i sunniti e gli sciiti. Per questo accolsero con
grandi onori i nazionalisti ebrei in visita in Libano dopo la
Dichiarazione di Balfour.
Speravano che l’afflusso di coloni sionisti in Palestina fosse ampio e rapido, perché corrispondeva ai propri interessi. E
i leader del sionismo si affrettarono a considerare i maroniti non
l’espressione più occidentale del mondo arabo ma il limite orientale
della cristianità occidentale.
L’affinità non si è mai affievolita in tutti questi decenni.
L’unico punto di attrito sono i profughi palestinesi della guerra del
1948. I libanesi maroniti, e non solo loro, desiderano rispedirli a
casa. Israele non intende permetterlo.
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