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07/08/2020

Governo conte bis. È vero cambiamento?

Arrivati a questo punto della crisi Covid 19 è ora di fare un bilancio e definire la natura del governo Conte bis. In primo luogo, è necessario non farsi portare fuori strada dagli attacchi, spesso scomposti e contradditori, della destra per dare la patente di sinistra all’alleanza PD-Cinquestelle.

Vediamo perché.

Certamente Conte ed il suo governo si sono trovati ad affrontare una situazione del tutto inedita. Il crollo del PIL del 12%, l’aumento del rapporto debito/Pil sopra il 157% e l’esplosione a due cifre del deficit sono cifre affrontate solo dopo la seconda guerra mondiale. Sono numeri da brividi. E purtroppo il brutto deve ancora arrivare. Quando finirà il blocco dei licenziamenti si vedrà la reale dimensione della crisi economica e sociale. Quella che si intravede ora è la punta dell’iceberg. Già in autunno la dimensione comincerà ad essere più chiara.

Ma veniamo alla politica del Governo. Per non cadere in errore e percepire cambi di tendenza rispetto alle politiche degli ultimi venti anni, il confronto non può essere fatto sui singoli provvedimenti con gli esecutivi precedenti. Prima del Covid-19 era un mondo. Dopo il Covid-19 un altro. Ovvero il raffronto va fatto sulla filosofia di fondo degli altri governi. E si può sottolineare, senza il dubbio di essere smentiti, che questa sia restata la stessa.

Per iniziare analizziamo il rapporto con l’Europa. La lunga trattativa con i governi europei, portata avanti con una maggioranza in cui uno dei due perni è il PD che ha nella difesa della UE e della moneta unica uno dei capisaldi della sua identità, non ci si poteva aspettare dall’Italia più di ciò che ha fatto. Su questo la critica al governo va fatta alla sua essenza europeista che una volta accettata non può che arrivare a quel risultato. E qual è questo risultato? Il più importante è che quei fondi (prestati o a fondo perduto) sono condizionati a “riforme” liberiste e tra queste far tornare le regole pensionistiche a quelle volute dalla Fornero superando i timidissimi e temporanei cambiamenti introdotti con quota 100.

In secondo luogo, i 127 miliardi di prestito previsti per l’Italia saranno prestiti privilegiati ovvero andranno rimborsati, in caso di difficoltà, prima degli altri. Questo potrebbe avere conseguenze e tensioni sullo spread poiché porterebbe a far salire gli interessi del debito “Non privilegiato” da reperire sul mercato. In sostanza aumenta il livello di ricattabilità finanziaria dell’Italia.

In terzo luogo, i vincoli europei sono sospesi non annullati o da ritrattare. Questo significa che presto, molto presto, si tornerà a chiedere sacrifici per tornare alla “normalità”.

La traduzione in politica interna di questa filosofia di fondo l’abbiamo vista sia nell’applicazione delle politiche per rispondere all’emergenza, sia in quelle che, travestite da politica industriale, si stanno iniziando a tradurre in socializzazione delle perdite.

La gestione della cassa integrazione è l’emblema del primo caso. Il dover finanziare in deficit la maggioranza delle spese più consistenti, l’estenuante trattativa con i partner europei e soprattutto l’assenza di una banca centrale, controllata dalla politica e, quindi, di un prestatore di ultima istanza che potesse rispondere immediatamente all’esigenza di risorse ingenti, ha portato a centellinare l’erogazione del sostegno al reddito a partire dalle molteplici forme della CIG. Su questo si è determinato il paradosso delle proroghe delle settimane di CIG, che con il decreto di agosto arriveranno a 36 in totale, a fronte della maggioranza dei pagamenti fermi ad aprile. In sei mesi, a parte i lavoratori dipendenti delle grandi aziende capaci di anticipare la CIG, ci sono milioni di lavoratori che da marzo hanno ricevuto solo due mesi di pagamenti con un netto in busta di circa il 50% dello stipendio. Non aver proceduto ad una semplificazione, almeno per questa fase, delle assurde procedure burocratiche per l’erogazione della CIG non può non avere la radice nella volontà di prendere tempo in assenza delle risorse necessarie. E non sono certo i bonus a pioggia per coprire l’articolata espressione sociale a cui rispondono le diverse componenti del governo a sopperire a questa drammatica situazione.

L’affaire ASPI (Autostrade per l’Italia) è l’emblema del secondo. Non si procede ad un’estromissione completa dei Benetton neanche dopo 43 morti a certificare il loro fallimento imprenditoriale, ma si fa intervenire lo Stato per ricapitalizzare, mettere soldi, e mantenere una governance finanziaria dove “il mercato” avrà una funzione determinante per definire costi, tariffe e, quindi, profittabilità della sua gestione. In sostanza si percorre la solita strada tanto cara alla storia del capitale. Durante l’andamento espansivo dell’economia lo Stato viene demonizzato e trasformato in un puro “regolatore” mentre in situazioni di crisi si richiede il suo intervento per socializzare le perdite e rilanciare su più solide basi la rendita ed il profitto anche di settori che non hanno nessuna ragione per essere in mano al mercato. Le autostrade sono monopoli naturali e come tali la competizione non esiste neanche in potenza. Ma è dall’avvio delle privatizzazioni post tangentopoli, concomitanti alla diminuzione del saggio generale di profitto, che il capitale in Italia si è appropriato, nella sua sete di rendita e profitti, anche di questi settori.

Affermare che questo Governo abbia fatto dei passi in avanti su nazionalizzazioni, cambiamento del potere in Europa, politiche industriali e sociali è pura illusione. Socializzare le perdite senza mettere in discussione la natura giuridica della proprietà non è un passo verso la nazionalizzazione, accettare le conseguenze dei finanziamenti europei non va nella direzione di trasformare la UE, erogare con tempistiche assurde il sostegno al reddito per i lavoratori dipendenti non è segno di una nuova sensibilità sociale. E la crisi, che si aggraverà, sta mettendo a dura prova l’attuale maggioranza e la sua articolata espressione sociale, in particolare il M5stelle che sia internamente (Di Battista) sia esternamente (Italexit di Paragone) rischia un vero e proprio sfaldamento.

Queste brevi riflessioni sostanziano la necessità di un’opposizione politica e sociale di sinistra che cominci ad accumulare forze nel nostro Paese. Al centro di questa opposizione insieme alla richiesta di rottura con la UE e la moneta unica che richieda sovranità democratica sulle politiche economiche e monetarie, devono emergere con chiarezza punti qualificanti di rottura reale con il passato. Si può certamente partire da una vera e propria battaglia politica e ideologica sulle nazionalizzazioni dei settori strategici (Autostrade, telecomunicazioni, trasporti, servizi pubblici) e l’intervento diretto dello Stato nella produzione di beni e servizi per una nuova produzione ed occupazione di qualità affrontando al contempo da sinistra anche la questione fiscale e sociale. Questo profilo dovrebbe essere al centro di una battaglia sull’utilizzo dei fondi che avrà in mano questo o un altro governo contrastando i precetti neoliberisti della UE. Questa è l’unica strada per alzare un livello di critica generale al fine di rispondere alla crisi indicando proposte che nell’immediato siano o meglio sarebbero percorribili.

In assenza di tutto ciò l’unica voce alternativa all’attuale governo resterebbe quella della destra che inveisce contro i migranti ed occhieggia a Draghi. Probabile che nessuno a sinistra riuscirà oggi a cambiare la direzione di marcia verso cui questa crisi ci sta portando. Ma certamente se ci sarà a sinistra una forza politica ben posizionata, questa potrà ricominciare a radicarsi nella società e nel lungo periodo a far cambiare direzione al vento.

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