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15/08/2020

Testament - 1999 - The Gathering

Il mio spacciatore di dischi era il futuro webmaster della webzine in cui finii per scrivere. Alcune volte veniva da me e senza dirmi niente mi passava questi cd masterizzatissimi, con un sorriso beffardo stampato sulla faccia che stava a intendere: tanto lo so che ti garba. Ci azzeccava quasi sempre, e, le poche volte che ciò non accadeva, ingigantivo il fatto per fargliela pesare come si farebbe con un pezzo di merda qualunque. Un giorno mi consegnò The Gathering dei Testament, così, dal nulla. Un po’ tutto quello che mi ritrovavo per le mani finivo per comprarlo, e paradossalmente, The Gathering dei Testament ci misi circa un annetto per portarlo a casa originale. E la cosa buffa è che una volta preso, continuai ad ascoltare quel cd-r ancora per un po’. Era come se mi ci fossi affezionato, mi rodeva il cazzo toglierlo di lì ed erano mesi che mi tenevo nel lettore prevalentemente quello: sono usciti gli Annihilator? Okay, poi li sentirò. Adesso ho i Testament. Un album perfetto, The Gathering, e che non sapeva di avere un difetto grossissimo. Ma era pur sempre perfetto.

I Testament erano un gruppo parecchio sbarellato, tanto che dopo The Ritual cambiarono più facce lì dentro che in una di quelle pizzerie che fanno le consegne con il motorino, e che mensilmente uccidono decine di aspiranti pensionati spedendoli di corsa verso alte palazzine prive di un ascensore, principalmente in giornate piovose e fredde, il tutto per una paga del cazzo. Ci passò chiunque dai Testament, ed alcuni non incisero alcunché di particolare, come sarebbe accaduto a Chris Kontos. La band si era pure sciolta e riformata in un lasso di tempo che aveva del ridicolo, ma la vera reunion dei Testament fu questa qua: The Gathering. Ebbe la durata di una lunghissima tournèe, dopodiché il silenzio ripiombò su di loro per una serie di problematiche fisiche che prima si presero la salute di James Murphy, e infine tormentarono Chuck Billy. Ma fu un periodo veramente intenso, certamente più adrenalinico di tutta quella roba riuscita soltanto a metà che seguì The New Order, e che avrebbe portato uno come Alex Skolnick a togliersi dai coglioni in direzione di altri generi musicali. Apprezzo Low ed ho un debole per Souls Of Black nonostante i suoi palesi difetti, ma dopo The New Order – sia chiaro – i Testament non furono più in grado di ripetersi sui livelli degli esordi.

La non-reunion dei Testament ne costituì l’ennesima formazione rassomigliante ad una all-star band: James Murphy fu arruolato per una seconda volta e la cosa si rivelò un autentico toccasana, dato che in Demonic la sua mancanza si sentì molto più di quella del cantato pulito di Chuck Billy. Chitarre belle rocciose, ma senza i guizzi che una vera testa di serie avrebbe offerto. James Murphy riportò quei guizzi e quella personalità smisurata all’interno della band. Inoltre ci fu l’avvicendamento con uno degli ottocentocinquantasei batteristi passati dal gruppo californiano, con buona pace di Louie Clemente: stavolta sarebbe toccato a Dave Lombardo, e mi prendo qualche riga per soffermarmi proprio su di lui. La prova dell’ex Slayer su The Gathering è tecnicamente ineccepibile ma non mi fece impazzire a tutto tondo: certamente ne ricorderemo le sfuriate su Legions of the Dead o il finale elettrizzante di Eyes Of Wrath, ma si trattava dello stesso Dave Lombardo completo ed evoluto dei Grip Inc., ovvero quello che ti piace da morire ma non ti sorprende più. Su South of Heaven avrebbe fatto drizzare i capelli in capo a un morto, ma io pretendevo quel Dave Lombardo – all’epoca giovane e in piena mutazione come artista – e purtroppo non lo avremmo rivisto con facilità. Tuttavia, per un ragazzetto come me, vedere il tuo batterista preferito tornare a fare thrash metal in un gruppo che conta, fu come la scoperta di uno sconfinato portale pornografico in streaming gratuito. L’hype per The Gathering si fece gigantesco, a tratti schiacciante, ed amai l’album a partire dai suoi già intramontabili capisaldi: Three Days in Darkness, Down for Life che risuonai pure in non ricordo quale gruppetto del mercoledì sera con birre e altre birre al seguito, e poi c’erano True Believer da cantare a memoria ai concerti e quella roba allucinante che apriva l’album. D.N.R. – Quest’ultima è un po’ il classico immortale degli ultimi vent’anni, il pezzo che cani e porci avrebbero conosciuto, memorizzato e adulato nei decenni a venire: una sorta di Into The Pit per il millennial, o di Impara a diventare metallaro con i Testament. E c’era una ragione. I Testament nel 1999 cacavano pesanti massi sulla testa di tutti i Big Four, di cui giustifico solo Hanneman e compagnia bella: dai Metallica impantanati a registrare violoncelli con Michael Kamen ai Megadeth alle prese con Risk; gli Anthrax nella merda fino al collo nonostante John Bush e infine gli Slayer, i più sani di tutti, comunque usciti da un annetto con quel Diabolus in Musica che per la prima volta li pose sotto l’occhio di una severa critica. Mentre si iniziava a perdonare a malapena pure una Stain Of Mind, i Testament andarono benissimo così, con una colpa soltanto.

The Gathering è l’assassinio del vecchio concetto di fare thrash metal. Non più l’unione tra vecchia scuola – punk o non punk che essa fosse – ed un metal ben costruito e solido, evoluto sino a generare e far combaciare tutti quei riff che avrebbero composto Time Does not Heal; e non era neanche quella roba all’insegna del groove che caratterizzò Low e tutti i sadici ma intensi anni Novanta. The Gathering è la prima volta che avete ascoltato il thrash metal come lo si intende oggi, per scriverla alla maniera dei flyer promozionali, quello rozzamente detto heavy but melodic. The Gathering è eccesso, spettacolarizzazione, un film per tutti della musica pesante. The Gathering è una bellissima fica che perde mezz’ora a vestirsi da infermiera quando eri già pronto a metterla a pecora. The Gathering è una cosa fatta per bene ma che causerà danni immensi, come quello stronzo di Cinquino, che – mentre eravamo a pescare le carpe in cava – si immergeva proprio dove avevamo calato le esche con indosso tuta e pinne, per raccogliere dal fondale pneumatici e altri rifiuti vari. Nessuno prendeva più nulla, appena andava giù Cinquino. Per quanto io sia un amante incondizionato del thrash metal risalente al periodo 1985/1991, The Gathering lo trovo perfettamente al livello delle prime due uscite dei Testament. Con la differenza che, se oggi il thrash metal non è più lo stesso, buona parte della colpa è esattamente sua, delle sue contaminazioni chitarristiche con il metal estremo e della sua produzione ridondante. Suoni che, in quegli anni di tumulti, ritorni o rinascite, furono socialmente ed eternamente accettati come lo standard a cui rifarsi. Non c’era spazio neanche per mezzo filler dentro a The Gathering, e quindi finì per piacere un po’ a tutti: agli appassionati di power metal, del metallo melodico scandinavo e in prima battuta anche ai thrasher stessi, poiché di pane da mettere sotto ai denti ne era rimasto ben poco perché si potesse muovere una critica di troppo. Lì risiedeva la differenza con un Enthrone Darkness Triumphant, riscrittura di un genere musicale avvenuta subito dopo gli anni d’oro dello stesso. The Gathering fu una rilettura a partire da zero, con un vuoto di sei o sette anni dalle ultime annate del techno-thrash, e senza passare in nessun modo dai Pantera. E fu assolutamente necessario.

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