Resta il fatto che l'articolo seguente, che proponiamo in funzione di stimolo al dibattito non soltanto sulla cronaca bielorussa, ma anche sulle categorie che gli autori citano – a partire da quella di imperialismo – sconti l'essere basato su teorie analitiche apparentemente solide che, tuttavia, private del collante dialettico che dovrebbe unirle, finiscono per rivelarsi ingessate su se stesse e dunque incapaci a fornire una lettura del caso che vanno a studiare.
Di più, in molti passaggi pare addirittura che gli autori tentino di piegare i fatti alle categorie utilizzate per analizzarli. È il caso della incapacità di definire il regime di Lukasenko nella materialità del contesto in cui si è sviluppato, così come di fornire una lettura degli interessi di classe in quel paese che non sia l'equidistanza sia verso il regime borghese di Lukasenko, sia verso le sirene delle ingerenze occidentali in Bielorussia.
Dal canto nostro crediamo che la posizione bielorussa sia complicata da due fattori:
- l’interesse imperialista occidentale in funzione del sempiterno accerchiamento della Russia (che è antecedente all’URSS);
- il fattore economico legato alle forniture energetiche che costituiscono il punto debole del Paese e del regime di Lukashenko.
Nelle cronache odierne, il secondo ci pare preponderante rispetto al primo in quanto da tempo la dipendenza (1) del paese da petrolio, gas e in misura minore energia elettrica provenienti dalla Russia è il dato che ha reso sempre più difficile l’autonomia della Bielorussia dal proprio vicino orientale.
Si tratta di una criticità da cui deriva direttamente l’azione ondivaga in politica estera seguita negli ultimi anni da Lukashenko, in particolare da quando le compagnie energetiche russe hanno manifestato l’intenzione di porre fine alle tariffe agevolate tramite le quali la Bielorussia si riforniva di idrocarburi dalla Russia. Una decisione, quella dei colossi energetici russi, legata direttamente alla condizione di crisi che il mercato degli idrocarburi vive da più di un lustro e che nel caso della Russia in particolare si è fatto più gravoso per profitti privati e conti pubblici in seguito al colpo di stato nazista in Ucraina e al corollario di sanzioni economiche unilaterali imposte al regime di Putin.
Situazione che, per altro, sta lentamente consumando anche la tenuta di Putin stesso rispetto agli assetti di potere che il medesimo aveva consolidato a far data dalla successione a Eltsin.
Sempre l’analisi economica della Bielorussia, di contro, fornisce dati preziosi utili a smontare buona parte della retorica circa “l’ultimo dittatore d’Europa”.
Nonostante la citata questione energetica e la pesante eredità del disastro di Chernobyl che grava tutt'oggi sulle casse dello stato per il 5-7% del proprio bilancio, la Bielorussia viene riconosciuta come uno stato ad alto sviluppo umano, con una qualità sanitaria elevata, un indice di Gini tra i più basi d’Europa (2) e in generale come la repubblica ex sovietica in cui sono presenti le migliori condizioni di vita (3).
L’evidenza del gradimento di Lukashenko da parte dell’elettorato bielorusso sta probabilmente in questi numeri e nel loro raffronto con quelli dei rispettivi vicini, russi compresi che non sono altrettanto lusinghieri, anzi.
Ciò non toglie che la resilienza del sistema Lukashenko abbia ormai imboccato la via della consunzione, sia a causa delle dinamiche energetiche per cui è difficile ipotizzare un ritorno al bengodi dei prezzi al barile a 100 dollari e oltre che consentivano alla Bielorussia di potersi giovare delle tariffe scontate offerte dalla vicina Russia, sia a causa del fatto che una classe dirigente ingessata sulla eterna figura del presidente padre, alla fine viene a noia e dopo 26 anni di potere non ci riesce difficile crederlo.
Note:
1) https://en.wikipedia.org/wiki/Energy_in_Belarus
"Belarus is a net energy importer."
2) https://it.wikipedia.org/wiki/Bielorussia
"Secondo il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, il coefficiente di Gini è uno dei più bassi in Europa"
3) https://www.esquire.com/it/news/politica/a30077918/economia-bielorussia/
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Le elezioni in Bielorussia hanno portato alla riconferma per la sesta volta consecutiva del presidente uscente Aleksandr Lukašenko, rieletto con l’80,23% dei voti.
È opportuno precisare subito che il presidente bielorusso non è un comunista, ma un “paternalista autoritario”, fautore di “un’economia di mercato socialmente orientata”. Nel 1994, anno della sua prima elezione, basò la sua campagna elettorale su un programma di lotta alla corruzione dilagante negli apparati statali e di introduzione di riforme di mercato e di privatizzazioni meno selvagge che nelle altre repubbliche ex-sovietiche.Successivamente ha più volte ribadito la necessità di favorire e accelerare la destatalizzazione dell’economia, pur mantenendo il controllo pubblico dei grandi monopoli strategici, organizzati in forma di società per azioni, cioè di imprese capitalistiche, in cui lo stato viene ad assumere il ruolo di “capitalista collettivo”: una cosa ben diversa dalla proprietà socialista. Non stiamo parlando, quindi, di un’economia socialista pianificata, ma di un tipo di gestione della restaurazione dell’economia di mercato in maniera meno selvaggia che altrove. Un capitalismo di stato che, tuttavia, ha permesso alla Bielorussia di ottenere una buona performance economica, con la disoccupazione allo 0,5% (percentuale ben più bassa che negli USA e in tutti gli stati europei), il PIL pro capite più alto tra tutte le repubbliche ex-sovietiche, un apparato produttivo solido e funzionante per il 50% ancora nelle mani dello stato, un welfare molto più sviluppato che in altri paesi, una sanità efficiente ereditata dall’Unione Sovietica e un tenore di vita discretamente elevato. Sono queste le ragioni del relativo consenso di cui gode Lukašenko tra la popolazione.
La battaglia elettorale tra Lukašenko e i candidati dell’opposizione, per altro tutti esponenti del capitale privato bielorusso, non verteva sulla scelta tra socialismo o capitalismo, ma era tutta interna a quest’ultimo, configurandosi come uno scontro tra un fautore di un capitalismo di stato, relativamente sensibile al welfare e alle problematiche sociali, favorevole al mantenimento della politica estera fin qui condotta, delle alleanze politico-militari in atto e della collocazione internazionale del paese, contrario a ogni forma di nazionalismo esasperato e quattro sfidanti che, invece, rivendicavano un’accelerazione selvaggia delle privatizzazioni dell’apparato produttivo, il disimpegno dagli organismi d’integrazione economica e militare con la Russia e un corrispondente riposizionamento a occidente, cioè verso gli USA, l’UE e la NATO. Due visioni diverse dello stesso sistema capitalistico.
Le sfumature di linea tra i quattro sfidanti erano talmente insignificanti da far confluire, di fatto, i voti su un unico candidato d’opposizione, S. Tikhanovskaya. È evidente che ciò non è stato il risultato delle presunte repressioni, come affermato dalla stampa borghese, perché il presidente in carica avrebbe avuto tutto l’interesse a far disperdere i voti dell’opposizione tra più candidati.Non appena l’esito elettorale è stato reso pubblico, sono immediatamente scattate, da un lato, la protesta di piazza delle opposizioni, con l’accusa di brogli, pressioni e falsificazione del risultato e, dall’altro, la campagna dei media occidentali e le dichiarazioni di esponenti dei governi borghesi e dell’UE, che pure parlano di non comprovate irregolarità e demonizzano Lukašenko come “ultimo dittatore d’Europa”, secondo un copione noto e già sperimentato in altre occasioni. Per contro, gli osservatori della CSI (Comunità degli Stati Indipendenti) non hanno rilevato situazioni particolari o sospette; dello stesso parere gli osservatori dei partiti e delle associazioni di Bielorussia.
Il plebiscitario risultato di Lukašenko potrebbe anche far sorgere qualche perplessità, benché egli indubbiamente goda del sostegno della maggioranza della popolazione, tuttavia la pretesa dell’opposizione di proclamare vincitrice la “casalinga” Svetlana Tikhanovskaja, moglie di un noto blogger antigovernativo già in galera, nonostante abbia raccolto appena il 9,9% dei voti, non può che far sorridere.Tikhanovskaja, prima di partire alla volta della Lituania, dove ha raggiunto i figli, ha lanciato un appello a non scendere nelle strade e non affrontare la polizia, appello che non è stato seguito dai suoi sostenitori che da tre giorni hanno iniziato le proteste trovando la polizia ad attenderli; gli scontri dopo la terza notte di violenze hanno portato il numero degli arresti sopra quota 1000 (7000, secondo i media borghesi) e hanno visto la polizia usare lacrimogeni, proiettili di gomma e cariche per disperdere i manifestanti. Nelle ultime ore i social sono stati invasi da testimonianze e video sugli avvenimenti di Minsk che, al di là delle intenzioni, rivelano come le proteste siano tutt’altro che pacifiche, con uso della violenza da entrambe le parti e siano strumentalizzate dalle potenze occidentali che, con il pretesto di “difendere la democrazia”, mirano in realtà a un rovesciamento del regime per ottenere vantaggi strategici nella competizione interimperialista.
Infatti, in questa situazione ancora poco definita e alquanto confusa hanno iniziato da subito a muoversi, con dichiarazioni d’appoggio all’una o all’altra fazione, governi, ministri, esponenti di partiti politici: da un lato gli Stati Uniti, con il segretario di stato M. Pompeo che ha espresso “il sostegno degli USA ai manifestanti”, affermando che “il popolo bielorusso ha diritto alle libertà che rivendica”, dimenticandosi come negli USA lo stato borghese che rappresenta stia reprimendo violentemente i manifestanti che protestano contro la violenza razzista e le diseguaglianze sociali. Sulla stessa lunghezza d’onda l’Unione Europea, che ha convocato un Consiglio straordinario e minaccia sanzioni e l’Alto Commissario agli Affari Esteri, J. Borrel, che dichiara che “i bielorussi hanno diritto alla democrazia e ad elezioni libere ed eque”. Il governo italiano ha messo in dubbio la regolarità del voto e ha lamentato “la compressione dei principali diritti civili e delle fondamentali libertà democratiche” e partiti come il PD, Forza Italia e il M5S sostengono un processo di “democratizzazione” e l’eliminazione “dell’ultimo dittatore d’Europa”.
In questa logica di standard variabili, come avrebbero reagito gli USA e l’UE, paladini dei diritti umani in casa d’altri, se la Bielorussia, o qualsiasi altro paese, si fosse permesso di stigmatizzare altrettanto duramente, per esempio, le repressioni dei Gilets Jaunes in Francia (con torturati, resi invalidi, morti e dispersi), o delle lotte dei lavoratori della logistica in Italia, o dei movimenti per i diritti umani negli Stati Uniti?
Per contro, sia la Russia di Vladimir Putin sia la Cina di Xi Jinping si sono congratulati per la rielezione.
Ciò che sta avvenendo in Bielorussia è determinato dallo scontro tra gli interessi economici e militari dell’imperialismo euro-atlantico e quelli dell’imperialismo russo, con cui il governo borghese di Lukašenko mantiene relazioni contraddittorie.Nello scontro interimperialista che ha per oggetto la Bielorussia, gli USA e l’UE sostengono quei settori del capitale privato nazionale, rappresentati politicamente dalle forze di opposizione, da Tsepkalo a Tikhanovskaya, che rivendicano riforme liberiste, maggiori privatizzazioni, tagli allo stato sociale e avvicinamento all’UE, agli USA e alla NATO. L’imperialismo euro-atlantico fomenta la protesta allo scopo di rovesciare l’attuale regime politico e sostituirlo con un altro più conforme ai suoi interessi, secondo il copione già applicato in Ucraina.
Le proteste di questi giorni ricordano infatti quelle a Kiev durante gli scontri in Piazza Maidan, che portarono al rovesciamento di Janukovič sulla base di interessi di settori oligarchici concorrenti che, sfruttando il malcontento popolare, realizzarono un colpo di stato, con la presenza di forze apertamente naziste, che ha portato l’Ucraina sotto l’influenza diretta dell’UE e degli USA.Al di là dei rapporti formali tra i due paesi, anche la Russia ha cercato di utilizzare una parte dell’opposizione per perseguire i propri obiettivi imperialistici, favorire l’espansione in Bielorussia dei propri monopoli e imporne il dominio, cosa certamente non gradita a Lukašenko, che ha sempre difeso l’indipendenza del suo paese dall’ingerenza delle potenze straniere.
La posizione della Russia nei confronti di Lukašenko e del suo indirizzo politico-economico è contraddittoria. Da un lato, la Bielorussia è l’ultimo e unico paese alleato della Russia in Europa, con forti legami di scambi commerciali, processi di integrazione economica in atto e un’importante presenza di basi militari russe. Il mantenimento della stabilità politica in Bielorussia nel segno della continuità è, quindi, un interesse strategico della Russia. Dall’altro lato, il capitale monopolistico russo è fortemente interessato a mettere le mani sull’apparato produttivo bielorusso attraverso una sua massiccia e generalizzata privatizzazione e trova nella politica economica portata avanti da Lukašenko un pesante ostacolo a questo suo disegno. Non stupisce, quindi, che l’oligarchia finanziaria russa abbia cercato di utilizzare una parte dell’opposizione per destabilizzare Lukašenko. Questa contraddizione è provata dal recente arresto di mercenari russi dell’organizzazione “Wagner” e da quello del candidato V. Babariko, CEO della filiale bielorussa della banca russa Gazprombank e “uomo di Mosca”.
L’intento egemonico e predatorio del capitale finanziario russo e la spregiudicata strumentalizzazione della dipendenza energetica dal petrolio e dal gas russo hanno indubbiamente aiutato i nazionalisti e la destra estrema ucraina a raccogliere consenso tra le fasce meno politicizzate della popolazione e oggi anche in Bielorussia esiste il rischio concreto che portino acqua al mulino dell’opposizione borghese filo-occidentale.La riapertura delle trattative con la Russia per creare uno stato federale unico serve sia al consolidamento del regime bielorusso, sia a discutere i prezzi delle forniture energetiche russe, che Lukašenko ha chiesto di rivedere al ribasso, riportandoli almeno in linea con i prezzi internazionali. La frenata a questo processo d’integrazione politica tra i due paesi viene da Mosca, poiché Putin teme che ciò potrebbe far crescere le simpatie del popolo russo per il modello economico bielorusso e, quindi, alterare gli equilibri politici in Russia. In sostanza, il capitalismo di stato socialmente orientato della Bielorussia è un modello di capitalismo che l’oligarchia finanziaria russa e la sua proiezione politica al Cremlino percepiscono come pericoloso e contrario ai propri interessi.
D’altra parte, Lukašenko ha mostrato finora grande abilità a gestire i rapporti con i paesi dell’UE, sviluppando con questi gli scambi commerciali e la cooperazione nell’ambito della ricerca scientifica in modo significativo. Nel complesso, è riuscito, nei 26 anni della sua presidenza, ad evitare che la Bielorussia finisse schiacciata tra due blocchi imperialisti in competizione tra loro, USA e UE da un lato, Russia dall’altro e costretta a scegliere a quale imperialismo sottomettersi. Al contrario, finora è riuscito a preservare l’indipendenza politica ed economica del paese.
È ancora troppo presto per capire se gli eventi evolveranno come in Ucraina o se Lukašenko, avendo ancora il sostegno della maggior parte della popolazione e degli apparati istituzionali, riuscirà a superare anche questa crisi politica. La seconda ipotesi rimane obiettivamente quella più probabile, ma molto dipenderà anche dalla capacità dei comunisti e delle forze di classe bielorusse di piegare la situazione a favore dei lavoratori, sviluppandone l’autonomia politica e ideologica ed evitando che la strumentalizzazione da parte della borghesia li porti a difendere interessi altrui coinvolgendoli in false alternative di scelta tra un imperialismo e un altro.
Da questo punto di vista, anche in Bielorussia il movimento comunista e operaio attraversa una fase di debolezza e divisione. All’inizio del primo mandato di Lukašenko, nel 1994, il Partito Comunista di Bielorussia subì la scissione di una sua parte, che costituì il Partito dei Comunisti Bielorussi, successivamente ridenominatosi “Mondo Giusto” e oggi schierato con l’opposizione filo-occidentale. Per contro, il PCBy, rappresentato in parlamento, è appiattito sulle posizioni e il corso politico di Lukašenko, al quale ha confermato il proprio pieno appoggio anche alle ultime presidenziali. Un partito istituzionale, quindi, che non mostra segni di una tendenza al recupero della teoria e della prassi marxista-leninista ed è impegnato più nella difesa dell’ordinamento borghese esistente che nella lotta rivoluzionaria per il socialismo. Esiste, poi, il Partito Comunista Bielorusso dei Lavoratori (BKPT), un partito di recente costituzione, rivoluzionario e coerente, che è finora riuscito ad evitare il vicolo cieco della falsa scelta tra il sostegno al regime autoritario della borghesia nazionale (poiché questo è, in ultima istanza, il regime di Lukašenko) solo perché mantiene alcune magre garanzie sociali e il sostegno all’opposizione “democratica” che rappresenta gli interessi del capitale internazionale e promette libertà politiche.
Il BKPT, pur essendo un partito recente e ancora poco numeroso, nonostante il rifiuto della registrazione opposto dalle autorità bielorusse, nonostante la repressione, che non colpisce solo l’opposizione filo-occidentale, ha saputo non farsi catturare nella trappola del sostegno ad una delle fazioni della borghesia in lotta tra loro, avendo ben chiari gli interessi reali della classe di cui è avanguardia.Vogliamo qui formulare l’auspicio che il BKPT mantenga la coerenza che ha finora dimostrato, cresca e si rafforzi, riuscendo a guidare la classe operaia bielorussa a riconquistare il potere e a riprendere il cammino di costruzione del socialismo, interrotto dalla controrivoluzione del 1991.
Dal canto nostro, siamo ben consapevoli sia del fatto che il regime bielorusso è una forma di dittatura borghese, sia che le contraddizioni che la Bielorussia si trova oggi ad affrontare non sono determinate da ingombranti sopravvivenze di socialismo in quella società, bensì proprio dall’assenza di socialismo. Conseguentemente, ci batteremo contro ogni forma di ingerenza e intervento imperialista, in particolare da parte dell’UE e del governo italiano, in vicende che riguardano esclusivamente i lavoratori e il popolo bielorusso.
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