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05/08/2020

USA, Siria e i ladri di petrolio

Mentre da una parte il governo americano impone sanzioni economiche pesantissime alla popolazione siriana, dall’altra continua a muoversi per rubare letteralmente le risorse energetiche del paese mediorientale. L’amministrazione Trump ha conservato un contingente militare nel nord-est della Siria, con l’obiettivo principale, secondo quanto ammesso dallo stesso presidente, di mettere le mani sui pozzi petroliferi appartenenti a Damasco. Nei giorni scorsi, perciò, sono stati in pochi a sorprendersi della notizia di un accordo palesemente illegale che ha ratificato il furto di petrolio, col rischio oltretutto di far precipitare di nuovo i rapporti tra Stati Uniti e Turchia.

Il Dipartimento di Stato USA e la Casa Bianca hanno di fatto orchestrato un’operazione che, ufficialmente, ha visto i leader delle cosiddette Forze Democratiche Siriane (SDF), a maggioranza curda, stipulare un accordo con la compagnia petrolifera americana Delta Crescent Energy per estrarre greggio, raffinarlo e, per la quota eccedente i bisogni locali, esportarlo sul mercato internazionale.

Circa il 70% dei giacimenti petroliferi siriani è situato nel territorio controllato dalle milizie curde conosciute col nome di Unità di Protezione Popolare (YPG) e che dominano le SDF. I curdi nel nord-est della Siria sono appoggiati dagli Stati Uniti e sono anzi la forza su cui Washington punta per promuovere i propri interessi nel paese, cioè, in definitiva, per cercare di rimuovere il governo di Assad. Prima dello scoppio del conflitto, alimentato dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa e in Medio Oriente, la Siria produceva circa 380 mila barili di petrolio al giorno.

Sull’accordo per lo sfruttamento petrolifero, il governo USA aveva mantenuto un comprensibile riserbo, vista l’illegalità di esso e gli imbarazzi che ha poi effettivamente creato sul fronte diplomatico. Giovedì scorso la notizia aveva però iniziato a trapelare dopo che era emersa nel corso di un’audizione al Senato del segretario di Stato, Mike Pompeo.

In quella circostanza, il senatore repubblicano Lindsey Graham aveva rivelato che il comandante delle SDF, Mazloum Abdi, lo aveva informato di un accordo petrolifero con una compagnia americana non meglio identificata per “modernizzare i pozzi nel nord-est della Siria”. Graham aveva allora chiesto a Pompeo se l’amministrazione Trump appoggiava l’intesa e l’ex direttore della CIA aveva subito risposto affermativamente. A conferma del ruolo determinante svolto dalla Casa Bianca, Pompeo aveva poi aggiunto che il raggiungimento di un accordo aveva richiesto più tempo del previsto e che il governo USA si sta ora adoperando per la sua implementazione.

A livello ufficiale, Washington sostiene che il controllo della produzione e dell’esportazione di greggio nella Siria nord-orientale serve a garantire ai curdi i mezzi per il sostentamento della popolazione locale e per combattere su tre fronti, contro ciò che resta dello Stato Islamico (ISIS), le forze di Damasco e quelle turche. In realtà, si tratta di un puro e semplice furto di risorse che appartengono al governo legittimo della Siria. L’autonomia delle forze curde non è in alcun modo riconosciuta da Damasco, tantomeno per quanto riguarda la gestione del petrolio, e il contingente militare americano continua a occupare in modo del tutto illegittimo e illegale questa porzione di territorio siriano.

La reazione del governo di Assad alla notizia dell’accordo tra i curdi e Delta Crescent Energy è stata comprensibilmente molto dura. “L’accordo è nullo e non ha alcun fondamento legale” ha affermato correttamente il comunicato emesso da Damasco. Ciò che è accaduto nei giorni scorsi è secondo Assad un “accordo tra le SDF e una compagnia petrolifera americana per rubare il petrolio siriano con il sostegno dell’amministrazione USA”. Le milizie curde siriane avevano sottratto all’ISIS i pozzi petroliferi alcuni anni fa e, con il contributo militare americano, hanno in seguito respinto svariati tentativi delle forze governative di riconquistarne il legittimo controllo.

In una dichiarazione rilasciata alla testata on-line Politico, uno degli amministratori di Delta Crescent Energy, James Cain, ha confermato la regia dell’amministrazione Trump e abbozzato i contorni di un’operazione condotta come se il territorio siriano fosse poco più di un protettorato di Washington. Cain ha spiegato come la sua compagnia si sia impegnata a “tenere informato il dipartimento di Stato” circa l’andamento delle trattative con i curdi e, pur “non cercandone l’approvazione”, lo scrupolo è stato quello di agire “secondo gli interessi americani”.

L’idea che il petrolio siriano appartenga al popolo di questo paese e debba essere controllato dal governo di Damasco non ha dunque sfiorato i vertici di Delta Crescent Energy. Che la Casa Bianca e il dipartimento di Stato abbiano scelto questa compagnia poco conosciuta e di importanza decisamente minore rispetto ai colossi petroliferi USA non è un caso. L’operazione risponde d’altra parte a interessi diplomatici e strategici ancora prima che commerciali e Delta Crescent Energy era il candidato ideale per portarla a termine.

La compagnia è stata creata nel paradiso fiscale del Delaware nel febbraio 2019 e ha tra i suoi “partner” alcuni ex esponenti dell’apparato militare e diplomatico americano, come il già citato James Cain, ex ambasciatore USA in Danimarca, e James Reese, ex ufficiale dei corpi speciali Delta Force dell’esercito americano. Agendo con ogni probabilità su indicazione del dipartimento di Stato, i vertici della compagnia hanno negoziato per oltre un anno con i curdi, per poi ottenere una “licenza” dal Tesoro americano lo scorso mese di aprile.

L’atteggiamento degli Stati Uniti in Siria continua dunque a essere tutt’altro che all’insegna del disimpegno, come sostengono alcuni ambienti di potere a Washington critici dell’amministrazione Trump. Lo scorso mese di luglio era entrato ad esempio in vigore anche il cosiddetto “Caesar Act”, una legge che impone sanzioni estremamente dure contro le compagnie siriane e quelle di altri paesi che intendono intrattenere rapporti commerciali e finanziari con Damasco.

L’iniziativa, volta a strangolare l’economia della Siria, è in sostanza una nuova punizione per la resistenza del governo di Assad contro la guerra condotta senza successo sotto la regia americana nell’ultimo decennio. Oltre a impedire virtualmente le transazioni commerciali, con l’obiettivo di affamare la popolazione siriana e fomentare una rivolta contro il governo, gli Stati Uniti hanno così ratificato anche il furto sistematico di una delle principali fonti di entrate del paese, come appunto il petrolio.

L’accordo tra i curdi siriani e la compagnia Delta Crescent Energy rischia in ogni caso di incrinare nuovamente i rapporti tra Stati Uniti e Turchia, dopo che negli ultimi mesi si era registrata una certa distensione in conseguenza soprattutto delle frizioni tra Ankara e Mosca sul fronte libico. Com’è noto, la Turchia considera i curdi dell’YPG un’organizzazione terroristica legata al PKK e praticamente tutta la politica siriana del presidente Erdogan è rivolta a impedire la formazione di un’entità curda autonoma nel nord della Siria. Dall’agosto del 2016, la Turchia ha condotto tre operazioni militari oltre il confine siriano, tutte dirette contro la minaccia del “terrorismo” curdo.

Il ministero degli Esteri turco ha condannato senza mezzi termini l’accordo petrolifero dei giorni scorsi. Con esso, secondo Ankara, gli Stati Uniti sono complici nel “finanziamento del terrorismo” e, essendo illegale dal punto di vista del diritto internazionale, costituisce una minaccia all’integrità territoriale, all’unità e alla sovranità della Siria. Il possibile riaccendersi dello scontro tra USA e Turchia sul nodo curdo-siriano introduce così una nuova complicazione in una relazione tra alleati già più volte sull’orlo del baratro negli ultimi anni, fornendo a Mosca e Damasco un potenziale appoggio strategico per provare a riconquistare finalmente il territorio siriano che ancora sfugge al completo e legittimo controllo del governo di Assad.

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