Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

02/02/2021

Venezuela - Il bivio della crisi economica

Il Venezuela è in un processo di stagflazione, cioè di recessione e inflazione, dall’anno 2013. È la prima caratteristica che indica Pasqualina Curcio, economista, professoressa all’Università Simón Bolívar di Caracas, autrice di una serie di libri sul passato e il presente dell’economia venezlana.

Il prodotto interno lordo (PIL) è sceso di circa il 70% dal 2013 ad oggi, spiega la Curcio. Inoltre, con il «processo inflattivo, anche iperinflattivo, abbiamo avuto variazioni di prezzi superiori al 50% mensile, dove solamente nel 2018, in cui c’è stato il picco, siamo arrivati al 130.060%, secondo i dati ufficiali».

Il PIL e l’inflazione sono, insieme alla disoccupazione, alcuni dei grandi indicatori dell’economia. Quest’ultima, secondo il messaggio presidenziale all’Assemblea Nazionale, si colloca all’8,8% per il 2020, due punti in più rispetto al 2019, cosa che, per Curcio, «nonostante il calo importante del PIL, non è una cifra di disoccupazione allarmante».

Da questi numeri si ricava la fotografia di un’economia che ha passato grandi trasformazioni. «L’importante, oltre alla descrizione, sono le cause», indica l’esperta, per la quale esistono diversi elementi centrali che danno l’idea dell’attuale situazione.

Le cause

A partire dal 2013 – quando inizia il Governo del presidente Maduro – «si intensifica il processo della guerra economica, che si inquadra in una guerra non convenzionale», analizza la Curcio.

Lo sviluppo della guerra economica ha avuto, da allora, diversi momenti ed elementi determinanti. Uno dei primi è stato «un mancato rifornimento programmato e selettivo di beni, nel 2013, 2014, 2015 fino al 2016, che non è stato causato da un calo della produzione, ma da un’alterazione dei meccanismi di distribuzione».

In parallelo a questo fenomeno interno, «e in modo occulto», spiega, sono iniziate le azioni internazionali, come la «manipolazione dell’indice finanziario del rischio-Paese mentre il Venezuela rispettava puntualmente i suoi impegni di debito estero, e problemi per le transazioni finanziarie».

Un punto centrale dell’escalation è stato nell’agosto del 2017, in coincidenza con l’inizio dell’Assemblea Nazionale Costituente, quando sono iniziate le misure coercitive contro l’industria petrolifera venezuelana e l’impresa statale PDVSA, colonna vertebrale dell’economia nazionale. L’aggressione è diventata allora da occulta ad aperta.

PDVSA

«Hanno iniziato formalmente gli ostacoli finanziari, si impediva alla PDVSA di rifinanziare il suo debito, che portasse a termine i suoi pagamenti, acquistasse pezzi di ricambio e beni di consumo per la produzione, e in Venezuela la PDVSA è l’impresa che genera storicamente il 90% delle entrate in valuta estera del Paese», spiega la Curcio.

L’attacco alla PDVSA provocò diverse conseguenze: diminuendo la produzione, con un minimo di 400.000 barili nel 2020, «diminuirono le esportazioni, le entrate in valuta estera, e di conseguenza avemmo a disposizione meno risorse per importare beni di consumo finale, beni, materiali, materie prime e ricambi per la produzione non solo petrolifera, ma anche del resto».

Questo impattò negativamente anche sulla «possibilità di onorare gli impegni del debito estero perché diminuirono le entrate in valuta estera, e sulle riserve internazionali, i nostri risparmi, in quanto diminuendo le entrate si dovette utilizzare le riserve». Le riserve internazionali passarono da circa 20 miliardi di dollari nel 2013 a circa 6 attualmente.

Affondare la moneta

Un’altra delle armi che sono state utilizzate, cosa che spiega particolarmente l’inflazione, è l’attacco al bolívar, spiega la Curcio, la quale rileva che, per quanto i primi attacchi alla moneta siano iniziati nell’anno 2006, quando «cominciarono a fissare un presunto prezzo del bolívar che non era il vero prezzo», l’attacco centrale iniziò a partire dal 2012-2013, arrivando poi ad acutizzarsi nel 2017.

Questo è ciò che ha prodotto un’iperinflazione dal 2012 ad oggi, cioè, stando ai portali che fissano un presunto prezzo del bolívar, questo presunto deprezzamento della nostra moneta, che si aggira intorno ai 1000 miliardi per cento». Nel 2012 un dollaro era equivalente a otto bolívares, e attualmente equivale a 1.500.000 bolívar sovrani, cioè 150 miliardi di bolívar prima della riconversione del 2018.

«Pur tenendo conto di tutte le responsabilità – in Venezuela sono successe molte cose in questi anni nell’economia e nella politica – non credo possa mai spiegarsi che il bolívar si sia svalutato di un miliardo per cento».

Questo attacco alla moneta è stato confessato nel dicembre del 2019 dal senatore statunitense Richard Black, che ha affermato con riferimento al Venezuela: «Abbiamo demonetizzato la sua moneta, e tramite il sistema bancario internazionale abbiamo fatto sì che la moneta venezuelana perdesse valore, e poi diremo ‘guardate quanto è cattivo questo Governo, la sua moneta non vale nulla’, beh non sono stati loro, siamo stati noi che abbiamo reso inutile la sua moneta».

Gli effetti

L’attacco alla moneta ha scatenato effetti critici sull’economia. Generando un processo iperinflattivo, con un «aumento quotidiano dei prezzi, in modo rapido e sproporzionato», si è svalutato il salario reale.

Con questa svalutazione «si perde il potere d’acquisto delle famiglie, si stabiliscono priorità di consumo, si tralascia l’acquisto di cose, e questo si ripercuote sulla produzione, perché se non c’è chi compra non necessariamente si produce, e si provoca una contrazione nell’economia».

Un fenomeno simile si è verificato nella pubblica amministrazione, nello Stato, analizza la Curcio. Qui, di fronte a un’inflazione imprevedibile, «il budget previsto non basta allo Stato, e questo impatta sul suo impegno nel prestare tutti i servizi quali elettricità, acqua, telecomunicazioni, sanità, educazione, il servizio penitenziario, giudiziario», cosa che è visibile nella quotidianità venezuelana, in particolare fuori dalla capitale del Paese, Caracas.

Le risposte

Il Governo ha dato diverse risposte nel corso degli anni. Rispetto alla mancata distribuzione, per esempio, sono stati creati nel 2016 i Comitati Locali di Distribuzione e Produzione, che hanno permesso di creare un processo organizzativo per distribuire alimenti sussidiati dallo Stato.

All’inizio del del 2018 «fu annunciata la creazione del petro, che è nato come una criptodivisa, principalmente per superare il blocco sul sistema finanziario». Pochi mesi dopo la sua creazione, il petro fu sanzionato da un ordine esecutivo di Trump.

Nell’agosto di quell’anno, il Governo ha annunciato il Piano di Ripresa e Prosperità Economica, «disponendo un aumento dei salari di quasi il 3.700%, tuttavia questo aumento in settembre aveva già cominciato a svalutarsi, perché iniziarono un’altra volta ad attaccare il bolívar, e in meno di un mese raddoppiarono il tasso di cambio».

Il Piano includeva un’altra misura centrale: la flessibilizzazione del controllo del cambio. «Venne fatta con la speranza che potessero arrivare investimenti stranieri privati, perché una delle scuse era che non avevano la possibilità di fare liberamente transazioni monetarie», spiega la Curcio. Tuttavia, «gli investimenti non sono necessariamente arrivati, non perché non fosse libero il sistema dei cambi, ma perché si stava osservando la situazione di stagflazione che genera instabilità al momento di fare investimenti».

La situazione, nel contesto del blocco economico, portò il governo ad approvare nell’ottobre del 2020 la Legge Antiembargo, con lo scopo, tra l’altro, di attirare capitali privati.

La Legge Antiembargo

«È necessaria una legge contro l’embargo», afferma la Curcio. Tuttavia, pone dei dubbi sulla sua efficacia: «Abbiamo certamente bisogno che entri valuta estera, ma fino a che punto queste valute, se entrano, non finiranno in uno scenario di libero cambio, nel quadro di una svalutazione indotta che continua per l’attacco al bolívar?».

È ancora presto per valutare l’efficacia della Legge Antiembargo, in particolare perché le sue clausole indicano che il processo degli investimenti non è pubblico. Ma la Curcio, ricercatrice della storia dell’economia venezuelana, sostiene che «pensare che ora il settore privato e gli investimenti privati stranieri siano quelli che risolveranno il problema attuale del Venezuela è ingenuo se guardiamo il comportamento in un arco di più di mezzo secolo».

Secondo lei «lo Stato venezuelano ha risorse sufficienti, non solo il petrolio, c’è anche l’oro e altri minerali, che danno modo di affrontare questa guerra economica, non significa che il capitale privato non venga, ma se arriva e si porta via la poca valuta estera così com’era solito fare, non si risolve il problema».

Il bivio

In conclusione la Curcio propone un dibattito centrale: come si ripartisce la ricchezza prodotta nel Paese.

«Nei processi inflattivi, e soprattutto iperinflattivi, quella che l’inflazione finisce per danneggiare di più è la classe operaia, lavoratrice, per mezzo del salario, perché mentre i padroni del capitale hanno la possibilità di fissare i prezzi in base ai rapporti di forza del mercato, soprattutto se sono monopoli, il lavoratore non ha la possibilità di stabilire il suo salario».

Secondo i dati della Banca Centrale del Venezuela, nel 2014 il capitale privato si appropriava del 31% del PIL, il 36% era per i salariati e lo Stato otteneva il 13%. Questi numeri, nel 2017 – aggiornamento più recente – si sono modificati a favore dei privati, che sono passati ad ottenere il 50%, e a detrimento dei lavoratori con il 18% e dello Stato con il 9%.

Così nel processo di riduzione del PIL il totale si è ripartito in modo sempre più ineguale a favore dei «padroni del capitale». I salari reali, dal 2018 ad oggi, sono crollati del 99%, e, per quanto lo Stato abbia mantenuto circa il 75% del budget destinato agli investimenti sociali, questa percentuale si deve calcolare su un totale più ridotto percepito dallo Stato.

La Curcio insiste sul fatto che «non può essere la classe lavoratrice quella che subisce il maggior impatto della guerra economica». Uno dei primi passi è quello di aumentare i salari, e una delle strade per farlo è tramite imposte, «quanto più progressive, le imposte sulla rendita e i grandi patrimoni (…) sono un tema un tema di redistribuzione, sono capitali che si stanno prendendo una fetta di torta più grande di quello che si prendevano in passato, e storicamente no hanno pagato sufficienti tributi».

Per questo la Curcio sostiene che esista un grande bivio: «O aumento il denaro per aumentare il salario dei lavoratori e con questo riattivo la domanda e il consumo per riattivare la produzione, o semplicemente lascio che continuino ad aumentare i prezzi indipendentemente da quello che succede ai salari e che continui a calare la produzione».

Tuttavia, «in un processo rivoluzionario il bivio non ci dovrebbe essere, la priorità sono i lavoratori, la classe operaia, le sue condizioni di vita, i livelli di vita».

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento