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06/03/2021

Il “blocco farlocco” dell’esportazione dei vaccini

“L’Italia blocca le dosi di AstraZeneca. La linea dura del Vertice UE verso le Big Pharma”. Bella notizia... se fosse vera.

Ma comunque rivelatrice del modo contorto e oscuro con cui avviene la produzione e distribuzione delle dosi di vaccino tra i vari paesi del pianeta.

Intanto vediamo cosa è successo davvero. Il governo italiano ha utilizzato per la prima volta il “Meccanismo di trasparenza e autorizzazione per le esportazioni di vaccini anti Covid-19”, una norma europea risalente al gennaio scorso, per bloccare uno stock di 250.000 dosi che dovevano partire dallo stabilimento italiano partner di AstraZeneca in direzione dell’Australia.

I media l’hanno brutalmente tradotta in “blocco delle esportazioni”, solleticando l’immaginario autarchico-sovranista. Avevano fatto altrettanto per l’infame opposizione di Draghi alla proposta francese-tedesca di “regalare” un po’ di dosi ad alcuni paesi africani poverissimi.

La decisione, in apparenza, sembra davvero “sovranista”, ma non è neanche così. È peggio. Ma intanto squaderna una serie di notizie ignorate da tutti.

La prima, apparentemente più succosa, è che anche in Italia esistono stabilimenti in grado di produrre un tipo di vaccino. Ma quella produzione va da un’altra parte, perché una multinazionale privata decide cosa fare della sua merce senza neanche interfacciarsi con il governo locale.

In realtà, nello stabilimento Catalent di Anagni non si “fabbrica” il vaccino, ma semplicemente lo si mette nelle fialette monodose (“infialamento”) che vediamo continuamente girare in tv sui nastri trasportatori.

Il liquido contenente il principio attivo viene prodotto altrove (altri paesi, altri continenti), in stabilimenti che hanno bioreattori di un certo tipo. Poi viene trasportato qui (e altrove) e confezionato pronto all’uso.

Un giro complicato, planetario (stiamo parlando di multinazionali, mica di padroncini...), e anche parecchio dispendioso. Ma tanto poi tutti i costi economici entrano nel prezzo finale, pagato dagli Stati con le tasse dei cittadini... (per quelli ambientali non c’è soluzione).

Dunque sarebbe inutile “commissariare” la fabbrica di Anagni. Verrebbe a mancare immediatamente il liquido da infialare, per decisione di AstraZeneca.

Però non è fisicamente impossibile per uno Stato (uno qualsiasi o per l’Unione Europea), requisire o creare stabilimenti dotati dei bioreattori adatti. Quei macchinari sono costruiti in Europa, spesso, e anche in Italia, che ha una lunga e seria tradizione nel settore. E infatti, dopo mesi di inazione – sa italica che europea – qualcosa si sta muovendo.

Il ministro dello “sviluppo economico” italiano, il leghista Giancarlo Giorgetti, ha spiegato alla Camera che “si sta procedendo a individuare le aziende che, dal punto di vista infrastrutturale e tecnologico, potrebbero essere in grado in un ristretto arco temporale, di produrre vaccini in Italia anche sulla base di accordi commerciali con le multinazionali detentrici dei brevetti”.

Stesso discorso fatto dal suo omologo francese e, con molta lentezza, dalla stessa UE.

Il “problema” è che tutta questa frotta di ministri, in teoria pressata dalla necessità urgente di vaccinare al più presto la popolazione, si muove camminando sulle uova per non toccare i diritti (economici) sui vaccini garantiti alle multinazionali dai brevetti.

Lasciamo pure stare, per il momento, l’assurdità di una proprietà privata su qualcosa che serve immediatamente per salvare la vita di milioni di persone nel mondo. E lasciamo anche stare il fatto che la ricerca per trovare quei vaccini è stata finanziata quasi sempre dagli Stati – ossia dal “pubblico” – ma regalata alle multinazionali.

E infatti “nell’ambito della Strategia europea sui vaccini dello scorso 17 giugno, l’UE ha stipulato diversi Accordi preliminari di acquisto (APA) per sostenere lo sviluppo dei vaccini”. In pratica, la Commissione UE ha finanziato una parte dei costi iniziali sostenuti dai produttori di vaccini come contropartita del diritto di acquistare un determinato numero di dosi entro un dato periodo. Un “acconto”, diciamo, di parecchi miliardi.

Ma è il momento in cui bisogna andare di fretta, inutile ricordare tutto...

Però proprio l’urgenza del “fare” entra in conflitto con i tempi necessari a trovare la quadra tra interessi privatissimi e bisogni universali.

Per esempio. Il governo Draghi sarebbe pronto a mettere in campo strumenti come i contratti di sviluppo; una prima tornata di fondi potrebbe vedere già la luce nel decreto Sostegno dove le risorse potrebbero ammontare a 2 miliardi di euro. Se tutto va bene, qualche mese prima di cominciare a fare davvero qualcosa...

E infatti dai due tavoli tra il MISE, Farmindustria, AIFA e Invitalia sarebbe emerso che l’Italia potrebbe contribuire sia alla fase di produzione dei vaccini, sia a quella dell’infialamento. Da un lato, infatti, “è stata verificata la disponibilità di alcune aziende a produrre i bulk, ossia il principio attivo e gli altri componenti del vaccino anti Covid, perché già dotate, o in grado di farlo a breve, dei necessari bioreattori e fermentatori”.

Con comodo. Prima si vede come fare i contratti in modo da far guadagnare Big Pharma, poi si scrivono, poi si firmano, quindi si comincia a costruire qualcosa, a ordinare i macchinari, e a produrre (pagando le royalties sui brevetti, certo...) i principi attivi, e poi...

Intanto la pandemia cresce, gli ospedali scoppiano e solo quando cominciano a scoppiare si prendono decisioni di limitazione – parzialissima – di alcune attività. Ma senza mai procedere, anche nei periodi di blocco, allo screening con tampone dell’intera popolazione, in modo da separare nettamente i contagiati dai “sani”, fino a guarigione.

Non c’è da stupirsi che là dove “il pubblico” non è al servizio dei “privati” (né nazionali né multinazionali) il processo sia stato molto più rapido, efficace, efficiente. E il virus sia stato contenuto con pochissime perdite, sia umane sia economiche.

Ma noi viviamo nel “migliore dei mondi possibili”, a cui “non c’è alternativa”, nel capitalismo neoliberista occidentale... Dove i profitti di cinque o sei consigli di amministrazione contano assai più della vita, della salute e del benessere di qualche miliardo di persone.

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