Intervista a Roberto Montanari, sindacalista Usb della logistica in previsione dell’assemblea operaia nazionale che si terrà sabato prossimo a Bologna. Una nuova questione operaia si va imponendo sia con un discorso specifico che riguarda l’industria e tutta la catena del valore, ma che attraversa anche i processi che investono i servizi pubblici ormai piegati, come mai prima d’ora, al servizio delle imprese. L’elaborazione e l’organizzazione confederale e conflittuale del sindacato su cui l’Usb chiama a confrontarsi assume una rilevanza strategica.
Il 19 giugno a Bologna l’USB terrà l’assemblea operaia nazionale “Dalla catena di montaggio alla catena del valore”. Perché avete individuato nella catena del valore il punto focale dell’attuale fase di sviluppo del capitale?
Vanno considerati due aspetti attinenti la ristrutturazione del capitale nella fase storica del post fordismo: uno relativo al piano puramente economico ed uno che ne consegue su quello politico senza dimenticare che siamo dentro ad un processo in evoluzione non ancora maturo.
Per ciò che riguarda il primo emerge con forza il dato che delocalizzare le produzioni dall’occidente industrializzato a paesi emergenti in termini di industrializzazione consente un significativo contenimento dei costi senza dover mettere in conto, oltretutto, un livello robusto di resistenza e conflittualità operaia (pur con la felice eccezione di un’esperienza come quella dei “farmers” indiani).
Dal punto di vista politico registriamo un altro paio di effetti: il “raddoppio” del ricatto derivante da un “raddoppiato” esercito industriale di riserva, ossia il fatto che il capitale può disporre non soltanto del proletariato migrante nei paesi dell’occidente, ma anche di quello stanziale dei paesi ove si delocalizza per ricattare in termini di rischio occupazionale. Oltre a ciò si consideri la questione del dominio geopolitico. Non a caso dopo il crollo dell’URSS il primo terreno prescelto per delocalizzare (in primis dalla Germania, ma anche dal nostro Nord-Est) è stata l’Europa dell’Est. Far produrre un bene strumentale in Perù piuttosto che in Romania o in Vietnam significa, anche, sottostare ad un polo imperialista o esercitare una politica di influenza.
Giova ripetere che siamo dentro ad un processo, che le cose non sono cristallizzate, ma quello che sembra essere costante è il narcisismo del capitale che alla materialità del dominio, dello sfruttamento e del massimo profitto desidera e persegue l’egemonia di cultura pretendendo di essere pure ringraziato per i modelli (e le fabbriche) che esporta.
Lo spacchettare in questo modo le produzioni (mantenendo inalterato il modo di produzione capitalistico) comporta la segmentazione di tutto il ciclo affidando un ruolo ad ogni singola parte di esso. In questo la logistica ha un peso rilevante così come la commercializzazione, nelle declinazioni che ha assunto in questo terzo millennio (G.D.O.).
La catena del valore è tutto ciò, è la forma attuale, complessa, articolata, ma unitaria del percorso merce, denaro, merce.
Produzione, movimentazione e distribuzione sembrano marciare divisi, ma “colpiscono” uniti. Il movimento operaio del 2021 non può non ragionare in termini di unitarietà del fenomeno e pensare alla soddisfazione di sogni e bisogni dei soggetti sociali rappresentati ed organizzandosi conseguentemente.
Quindi la velocità nella consegna dei prodotti, sia alle imprese che ai clienti singoli, è la caratteristica ma anche il punto di debolezza del sistema?
Per una lunga fase, il modello produttivo è stato tendenzialmente unitario (le “isole”, la “catena di montaggio”) con addirittura un indotto che si strutturava fisicamente attorno, vicino alle grandi fabbriche. Ora, la catena del valore presuppone dinamiche differenti a causa della segmentazione.
La velocità richiesta per trasformare i prodotti in profitto, da reinvestire per fare nuovi profitti in una spirale bulimica ed infinita, è una condizione che ha a che fare con l’architettura organizzativa dell’intero ciclo.
Lo stoccaggio delle merci deve essere sufficiente e non troppo “lasco” per non immobilizzare troppo capitale, il trasferimento dal magazzino al venditore o all’acquirente (nel caso del commercio online) deve avvenire in tempi stretti; altrettanto lo scaffale espositivo del supermercato deve contenere merce che se ne vada e venga sostituita velocemente. È questa la logistica che viene definita del “just in time”, della rapidità.
Si tratta però di un modello che ha mostrato fragilità ancora irrisolte. Un problema lo riscontriamo, ad esempio, sulle grandi navi portacontainer, quelle da 15/16.000 TEU (unità di volume di un container ossia “20 piedi” – Twenty foot Equivalent Unit) che trasportano il doppio o il triplo di una nave normale, ma impiegano o il doppio del tempo ad arrivare (per i tempi di carico o il numero di scali) o devono viaggiare con carichi molto inferiori al potenziale di trasporto.
L’altra grande criticità è emersa con la crisi legata al covid. Il blocco delle produzioni/esportazioni cinesi dovuta alla prima fase di lockdown ha messo sotto stress le scorte del nostro paese producendo ritardi di rifornimento di 30 giorni medi nel settore degli elettrodomestici, ad esempio, per non parlare degli approvvigionamenti alimentari o dei prodotti di cura.
Le fragilità organizzative e logistiche hanno perciò aumentato notevolmente i disastri dovuti ad indirizzi economici liberisti in cui l’anarchica ricerca di profitto del capitale ha dimostrato la propria vulnerabilità rispetto a forme di economia pianificata più attente ai bisogni sociali.
La velocità è quindi virtù e vizio del modo di produrre della catena del valore. Una velocità, però, che viene messa in discussione non solo dalle scelte industriali come quella di basarsi su una nave grandissima o di dimensioni relativamente più ridotte, o da eventi come la pandemia, o dai cataclismi naturali causati dal dissennato sfruttamento ecologico del pianeta, ma anche da quel fattore umano che si chiama lotta di classe.
Una conflittualità particolarmente alta nel settore della logistica perchè in quel far west si sono connesse una serie di condizioni che hanno favorito la nascita di un movimento dalle caratteristiche estremamente interessanti.
Nella dinamicità di questo quadro sicuramente l’incognita delle soggettività che resistono e contrattaccano il piano del capitale è quella che crea più problemi alle sorti magnifiche e progressive delle catene del valore.
È per questo che perfino le grandi multinazionali della logistica attaccano le lotte con metodi squadristici, che si pensava fossero ricordi del passato, pensiamo ad Abd El Salam ma anche a quanto successo la scorsa settimana a Lodi.
Anche in questo, anche nella gestione dei conflitti siamo ad un cambio di passo. Nei magazzini percepiamo una fase di transizione nelle relazioni sindacali; si sta chiudendo un’epoca e se ne apre un’altra – ribadiamo sempre il concetto che si tratta di processi in atto, contraddittori e differentemente articolati, ma contraddistinti da una pulsione reazionaria in senso gramsciano, di rivalsa.
Stiamo ragionando e facendo bilanci relativi a tempi storici assolutamente brevi, il movimento di classe nella logistica ha un decennio o poco più di vita e non è che il passato si sia caratterizzato per bon ton da parte dei padroni. Il sacrificio di Abd Elsalam è del 2016 anche se pare avvenuto un secolo fa. Diciamo che percepiamo questi segnali: sta in qualche modo volgendo al termine la stagione degli accordi di portata strategica, quelli che hanno segnato rotture consistenti, che hanno messo in discussione pesantemente e spesso efficacemente il lavoro nero, il furto smaccato di salario, ferie, tfr, malattia, infortunio, che hanno in qualche modo portato legalità dentro i magazzini, che hanno costretto i padroni a fare i conti col sindacalismo conflittuale.
Ora, complici i decreti Salvini e l’entrata in scena del protagonismo dei grandi provider americani o di ispirazione americana (Amazon, Fedex, UPS, per fare alcuni esempi), le relazioni sindacali sono molto più difficili.
Questi signori sono entrati in una guerra senza esclusione di colpi con la Cina, i suoi prodotti, il suo modo di movimentare le merci, (significativo lo scontro nel campo della portualistica per contendere alla compagnia cinese COSCO il controllo dei principali porti italiani, Trieste in primo luogo, dopo “l’acquisto” del Pireo ad Atene) e si comportano con la logica della corte marziale contro i nemici interni che sono per l’appunto i lavoratori in lotta per i loro diritti.
“Con i sindacati non firmatari di contratto nazionale non trattiamo, preferiamo confrontarci direttamente ed individualmente coi nostri dipendenti”, questo è il refrain degli amerikani; questo è il tentativo di inertizzare qualunque forma di rivendicazione operaia per perseguire l’obiettivo dichiarato di aumento della produttività individuale, di aumento dell’orario di lavoro a parità di salario, di aumento del lavoro precario modificando in peggio le percentuali consentite per legge di lavoratori a tempo determinato o in somministrazione.
È interessante notare come in questi tempi sia notevolmente aumentato il numero di contestazioni disciplinari e il più variegato insieme di comportamenti intimidatori e repressivi.
Sino ad arrivare ai fatti di San Giuliano Milanese e Tavazzano di Lodi con l’uso di squadracce di picchiatori prezzolati per spazzare via i picchetti di scioperanti. In questo uso della forza “privata” c’è un salto di qualità preoccupante e l’emergere dello spirito primitivo, brutale e barbarico del capitale.
Come sta operando l’utilizzo dell’automazione spinta, della digitalizzazione, dell’intelligenza artificiale nella logistica?
Diciamo che l’automazione ha un impatto diversificato nel settore della logistica con ricadute importanti e immediate nella movimentazione delle merci dentro il magazzino, mentre nel trasporto è più in prospettiva.
Per ora si tratta principalmente di bracci semoventi, rulliere, sistemi di tracciamento ecc. per un mercato da 30 miliardi di $ entro il 2022, con una vendita di robot pari ad 1 milione di pezzi sempre entro il 2022 (erano 194.000 nel 2018). Questo significa che, pur prevedendo una crescita del comparto, i volumi di merci lavorate in più non produrranno un analogo incremento in termini di occupazione. Nel settore dei trasporti si stanno sperimentando le consegne da remoto con automezzi senza conducente o con droni. Pure in questo caso la guerra è con la Cina e il suo principale competitor è la Mercedes, ma siamo ancora indietro coi tempi.
Al di là delle implicazioni occupazionali, che pure hanno un peso, il “macchinismo” nella logistica ha conseguenze diverse rispetto “l’anello” delle produzioni poiché in questo caso l’uomo rimane più indipendente e meno parte della macchina.
Per capirci: il braccio meccanico è strumento USATO dal magazziniere, non il contrario, la “pistola” per il picking, per il tracciamento di un collo, è più strumento di controllo e monitoraggio della merce che robot che governa l’uomo, il carrello elevatore più evoluto e di ultima generazione è comunque una macchina che il carrellista guida con maestria (e magari qualche guasconata...), non “contenitore” di un autista.
In questa relazione con la tecnologia il lavoratore logistico rimane in qualche modo autonomo dalla macchina, il suo è più un rapporto da produttore e questo influisce anche in termini di consapevolezza, di autonomia culturale.
Sempre per intenderci, nessuna visione sacrale e mitica del facchino che rimane un proletario spessissimo senza coscienza di classe, oggettivamente e non soggettivamente antagonista al capitale, ma tant’è.
Che ruolo sono venute assumendo le comunità dei migranti rispetto a questa “nuova classe” e alle lotte?
Il mix di questa relazione col lavoro e l’appartenenza a comunità migranti che aiutano a contrastare, sebbene in modo impuro, un sentimento di solitudine e atomizzazione sono la cifra di una combattività ben più evidente che non in altri settori.
Questo insieme di opposti: purezza – impurità, tecnologia – manualità, comunità – collettivismo, cultura occidentale – culture migranti sono la cifra di una ricerca che dobbiamo agire, di un meticciato che dobbiamo praticare per costruire quella soggettività antagonista che il movimento operaio del nostro paese ha smarrito e fatica a ritrovare. Noi siamo ottimisti perchè vediamo con lo strumento della dialettica oltre l’orizzonte liberista. Ce la faremo? E quando? Inshallah
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