La libera ricerca storica è ormai divenuta un reato. Per la procura di Roma sarei colpevole di «divulgazione di materiale
riservato acquisito e/o elaborato dalla Commissione Parlamentare
d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio dell’on. Aldo Moro». Per questa
ragione martedì 8 giugno dopo aver lasciato i miei figli a scuola, da
poco passate le nove del mattino, sono stato fermato da una pattuglia
della Digos e scortato nella mia abitazione dove ad attendermi c’erano
altri agenti appartenenti a tre diversi servizi della polizia di Stato:
Direzione centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia
postale. Ho contato in totale 8 uomini e due donne, ma credo ce ne
fossero altri rimasti in strada. Una tale dispiegamento di forze era
dovuto alla esecuzione di un mandato di perquisizione e contestuale
sequestro di telefoni cellulari e ogni altro tipo di materiale
informatico (computers, tablet, notebook, smartphone, hard-disk,
pendrive, supporti magnetici, ottici e video, fotocamere e videocamere e
zone di cloud storage), con particolare attenzione per il rinvenimento
delle conversazioni in chat e caselle di posta elettronica e scambio e
diffusione di files, nonché ogni altro tipo di materiale. Decreto
disposto dal sostituto procuratore presso il Tribunale di Roma Eugenio
Albamonte che ha dato seguito ad una informativa della Polizia di
Prevenzione del 9 febbraio scorso. La perquisizione è terminata alle 17
del pomeriggio e ha messo a dura prova lo stesso personale di polizia
estenuato dalla quantità di libri e materiale archivistico (scampato
pochi mesi fa a un incendio), raccolto dopo anni di paziente e faticosa
ricerca. Singolare il fatto che non risultino effettuate perquisizioni
in casa di quei giornalisti “confidenti” della Commissione, o
direttamente al libro paga, che ricevevano informazioni di prima mano e
diffondevano veline di stampo dietrologico.
La divulgazione di
«materiale riservato» (sic!), secondo la procura della Repubblica si
sarebbe concretizzata in due reati ben precisi, il favoreggiamento (378
cp) e l’immancabile 270 bis, l’associazione sovversiva con finalità di
terrorismo, che avrebbero avuto inizio l’8 dicembre 2015. Da cinque anni
e mezzo, secondo la procura, sarebbe attiva in questo Paese
un’organizzazione sovversiva (capace di sfidare persino il lockdown) di
cui nonostante le molte stagioni trascorse non si conoscono ancora il
nome, i programmi, i testi e proclami pubblici e soprattutto le azioni
concrete (e violente, senza le quali il 270 bis non potrebbe
configurarsi). È legittimo, a questo punto, chiedersi se il richiamo al
270 bis sia stato un espediente, il classico “reato chiavistello”, che
consente un uso più agevolato di strumenti di indagine invasivi
(pedinamenti, intercettazioni, perquisizioni e sequestri), in presenza
di minori tutele per l’indagato.
L’8 dicembre del 2015 era un martedì
in cui cadeva la festa dell’immacolata. In quei giorni la commissione
parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni discuteva ed emendava la
bozza finale della relazione che chiudeva il primo anno di lavori,
approvata appena due giorni dopo, il 10 dicembre. Copie di quella bozza
finale erano pervenute in tutte le redazioni d’Italia ed io presi parte,
per conto di un quotidiano con il quale collaboravo, alla conferenza
stampa di presentazione.
Cosa abbia giustificato un tale imponente
dispositivo poliziesco, il saccheggio della mia vita e della mia
famiglia, la perquisizione della casa, la sottrazione di tutto il mio
materiale e dei miei strumenti di lavoro e di comunicazione, della
documentazione amministrativa e medica di mio figlio disabile di cui mi
occupo come caregiver, la spoliazione dei ricordi della mia famiglia,
foto, appunti, sogni, dimensioni riservate, la nuda vita insomma, non so
ancora dirvelo. Ne sapremo qualcosa di più nei prossimi giorni, quando
la procura a seguito della richiesta di riesame avanzata dal mio
difensore, avvocato Francesco Romeo, dovrà versare le sue carte.
Quello che è chiaro fin da subito è invece l’attacco senza precedenti alla libertà della ricerca storica,
alla possibilità di fare storia sugli anni '70, di considerare quel
periodo ormai vecchio di 50 anni non un tabù, intoccabile e indicibile
se non nella versione quirinalizia declamata in queste ultime settimane,
ma materia da approcciare senza complessi e preconcetti con i
molteplici strumenti e discipline delle scienze sociali, non certo
penali e forensi.
Oggi sono un uomo nudo, non ho più il mio archivio
costruito con anni di paziente e duro lavoro, raccolto studiando i fondi
presenti presso l’Archivio centrale dello Stato, l’Archivio storico del
senato, la Biblioteca della Camera dei deputati, la Biblioteca Caetani,
l’Emeroteca di Stato, l’Archivio della Corte d’appello e ancora
ricavato da una quotidiana raccolta delle fonti aperte, dei portali
istituzionali, arricchito da testimonianze orali, esperienze di vita,
percorsi. Mi sono state sottratte le tonnellate di appunti, schemi, note
e materiali con i quali stavo preparando diversi libri e progetti. Ho
dovuto rinunciare in queste ore a un libro che dovevo consegnare nel
corso dell’estate, perché i capitoli sono stati sequestrati. Forse
qualcuno ha pensato di ammutolirmi relegandomi alla morte civile. Quel
che è avvenuto è dunque una intimidazione gravissima che deve allertare
tutti in questo Paese, in modo particolare chi lavora nella ricerca, chi
si occupa e ama la storia.
Oggi è accaduto a me, domani potrà accadere ad altri se non si organizza un risposta civile ferma, forte e indignata.
12/06/2021
Se fare storia è un reato
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