Quando l’Unione Europea si occupa di questioni economiche, non stranamente, finisce sempre per (s)ragionare solo di finanza e regole di bilancio. L’economia reale (produzione, materie prime, ecc.) sembra una terra incognita per personaggi cresciuti a neoliberismo “globalizzato” (proprio mentre le loro mosse contribuiscono a cancellarlo!).
In questi giorni tremendi, in cui la guerra ha gelato le già scarse prospettive di crescita del Pi (dal +4% atteso per il 2022 si passa a un fin troppo ottimistico +1,9, con una paio di trimestri almeno di “recessione tecnica”), paesi come l’Olanda ancora stanno lì a frenare – anche se più cautamente – sull’ipotesi (una necessità) di rinviare il “ritorno alla normalità” per quanto riguarda le regole del “patto di stabilità” (ossia il rispetto del pareggio di bilancio e la riduzione del debito pubblico).
Unica concessione, su pressione spagnola, oltre che francese ed italiana, la raccomandazione di seguire “norma specifiche per ogni paese”, pur mantenendo la pretesa che siano “ambiziose” sul versante della riduzione della spesa pubblica.
Dall’altro lato, la Bce si preoccupa per l’esposizione di numerose banche europee nei confronti della Russia, ma un primo studio preliminare conclude che le perdite sarebbero comunque “gestibili”.
Tutta la partita del gas viaggia invece solo nelle dichiarazioni e nelle discussioni sulle sanzioni. Comprendere anche il gas tra le merci “vietate” significherebbe nell’immediato un pesante tracollo per le economie dei paesi più dipendenti dal metano russo.
Per il semplice motivo che altri fornitori, pur disponibili, o non possono coprire immediatamente le quantità che siamo abituati a consumare (non solo o non tanto per cucinare, quanto per produrre energia elettrica), o non si trovano infrastrutture di trasporto e trasformazione adeguate a quel fabbisogno (navi gasiere, rigassificatori, gasdotti alternativi, ecc.).
Non c’è bisogno di un Nobel per capire che se parte anche solo una frazione marginale di “razionamento” del gas – destinato alle imprese – non solo tutti i prezzi si impennerebbe ancora di più, provocando chiusure a raffica, ma a quel punto ci potremmo anche dover scordare – in tutta Europa – le ambizioni di ritorno a prima della pandemia, come dinamica economica.
Senza dimenticare che comunque quella dinamica era già davvero molto deficitaria: dal 2008 al 2019 si era registrata infatti una sostanziale stagnazione nelle economie occidentali, il motore della crescita erano state soprattutto quelle asiatiche.
Questo incubo non viene pudicamente neanche nominato, ma ogni nuovo livello di “sanzioni” (unilaterali e illegittime, sotto il profilo giuridico internazionale, visto che l’unico soggetto abilitato a irrogarle resta l’Onu, non certo gli Usa o l’Unione Europea autonominatesi “comunità internazionale”) avvicina la possibilità che sia la Russia a chiudere i rubinetti.
Gli “economisti di carta” – quelli che si occupano solo di finanza – assicurano che non ci sarebbe pericolo, perché altrimenti la Russia non saprebbe a chi vendere il suo gas. La realtà dimostra l’opposto, perché la domanda di energia resta altissima.
E se anche la costruzione di nuovi gasdotti richiedere tempi lunghi, sicuramente è più semplice deviare via terra i flussi verso clienti asiatici piuttosto che – per l’Europa – trovare fornitori alternativi nelle dimensioni e nei tempi (strettissimi) necessari a non far deragliare parti consistenti del sistema produttivo.
Ma sono problemi che ai Dombrovskis, Gentiloni o Prodi risultano incomprensibili. Chi è abituato all’economia di carta non viene neanche in mente che a giocare col gas si rischia di prender fuoco...
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