Piano piano, la vera posta in gioco che motiva questa guerra sta venendo fuori. Naturalmente non c’entrano nulla i “valori”, la “democrazia” e tutte le altre parole sparate h24 su tg, talk e dichiarazioni di politici d’ogni ordine e grado.
Prendiamo alcuni piccoli eventi significativi di queste ultime 48 ore e vediamo come – e se – si incastrano in un mosaico che restituisca qualche senso agli avvenimenti.
La visita di Mario Draghi negli Stati Uniti conteneva certamente molto servilismo nei confronti della presidenza Usa, ma nella sua piattezza istituzionale ha rilasciato forse involontariamente qualche segnale imprevisto.
Da un lato la scontata riaffermazione della “compattezza tra Unione Europea e Washington”, che il perfido Putin voleva lacerare, dall’altra una sommessa insistenza sul fatto che “la gente” in Europa vorrebbe la pace al più presto. Il fatto che si combatta alle porte di casa oppure a migliaia di chilometri di distanza – come per gli Usa – non è un dettaglio politicamente indifferente.
C’è stata da parte di Draghi anche una netta distinzione tra ciò che vuole “la gente” e quel che vogliono le classi dirigenti (“indebolire la Russia”, come dichiarato apertamente dal segretario alla difesa Usa Austin – e isolare la Cina). Ma queste ultime debbono “purtroppo” fare i conti con il consenso popolare. Che non c’è, nonostante il tambureggiamento infernale del sistema mediatico meno libero del “mondo libero”.
In Italia l’opposizione alla guerra si è manifestata fin qui con alcune manifestazioni, è entrata come tema in uno sciopero operaio e verrà agitata anche il quello del 20 maggio. Ma a livello di “popolo”, in assenza di una mobilitazione nazionale unitaria, appare per ora soprattutto nei sondaggi. Impietosi per l’establishment.
Si cominciano a far sentire gli effetti della guerra su un’economia già martellata da due anni di pandemia (che si ripresenterà certamente nei prossimi mesi), al punto che il ministro leghista del turismo – Garavaglia – è arrivato a chiedere “flussi temporanei di lavoratori stranieri per la stagione estiva”. Insomma: un po’ di immigrazione disposta ad accettare quei salari da fame che i lavoratori di questo paese sembrano non più disposti ad accettare. Che sia un leghista a chiederlo è più di una confessione.
Una guerra lunga, per il “logoramento” di Mosca, come vorrebbero a Washington è insomma mortale per i paesi europei. Che stanno facendo già i conti, in queste ore, con la riduzione del 25% del gas russo per decisione Ucraina (due gasdotti passano sul suo territorio).
Il caldo sta arrivando, dunque il consumo per ora cala, ma tutto quel che arriva va immagazzinato in vista dell’inverno. Ma se in autunno la guerra fosse ancora in corso sarebbe una tragedia, visto che i fornitori alternativi non possono sostituire in poco tempo le quantità abnormi che arrivano da Mosca via tubo.
Ma non c’è solo l’angoscia italiana. In Francia, mentre si va alle elezioni politiche, il segmento più “atlantista” è rappresentato da Macron, quello che da giorni si sbraccia per dire che “non bisogna cercare di umiliare la Russia”, che si deve cercare “un percorso che porti alla pace”. Parole ben più dure arrivano da Jean-Luc Mélenchon (la France Insoumise è per l’uscita dalla Nato), e persino i post-fascisti di Marine Le Pen storcono il naso davanti alle pretese americane.
In Germania le manifestazioni contro la guerra aumentano di numero e di partecipazione. La ministra “verde” Baerbock – ultrà atlantista – non riesce più a farsi vedere in pubblico senza essere duramente contestata.
La Gran Bretagna del fido Boris Johnson si va disunendo in modo eclatante. I conservatori stanno perdendo ormai tutte le elezioni, a qualsiasi livello. Nell’Irlanda del Nord ha trionfato il Sinn Fein (dipinto ancora adesso come il “braccio politico” dell’Ira), mentre in Scozia gli indipendentisti (che sono al governo, nella regione) pensano di poter vincere riproponendo un referendum popolare.
Anche la Spagna “soffre” il sentimento pacifista, e guarda con preoccupazione il possibile riemergere dell’indipendentismo catalano e basco, sempre repressi ma mai estinti.
Tensioni esplicite sotterranee, che si nutrono anche del malessere sociale in crescita – e che potrebbe esplodere in qualsiasi punto, se cominciassero ad essere decise misure da “economia di guerra”, come il razionamento energetico – e che rendono poco tollerabile il “miglior scenario possibile” per gli interessi Usa.
La posta in gioco, dunque, viene fuori come risultato di questo lavorio di contraddizioni. Ed emerge – insospettabilmente – nelle parole sia del ministro degli esteri russo, Lavrov, sia del presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen.
Per quest’ultima “La Russia è la minaccia più diretta all’ordine mondiale con la guerra barbara contro l’Ucraina, ed ha un patto preoccupante con la Cina”.
Per il vecchio marpione russo, invece, “Ci aspettiamo che la conclusione dell’operazione della Russia in Ucraina metta fine alla promozione da parte dell’Occidente di un mondo unipolare dominato dagli Usa“.
Entrambi, insomma, ammettono che la partita è proprio questa e l’Ucraina solo la scacchiera sulla cui pelle viene giocata.
L’ordine mondiale degli ultimi 30 anni è in discussione. Un nuovo equilibrio, frutto della crescita di competitor di ogni tipo, pretende di affermarsi. Ovvio che ciò non piaccia al neoliberismo occidentale, chiuso nella solita parte del “conservatore”, giunto a sdoganare persino i neonazisti come “alleati accettabili”, a dispetto della sua propaganda “democratica”.
Prima ce ne rendiamo conto, prima smettiamo di girare a vuoto
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