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01/08/2022

“Inverno demografico” In Italia. Un invito al confronto

Questo schematico (ed insufficiente) articolo vuole portare all’attenzione dei compagni e delle compagne, dati, elementi ed interrogativi per un confronto sulla questione del declino demografico nel nostro Paese.

Tutto ciò, non al fine di soddisfare una qualche curiosità quanto invece nella prospettiva dello “studio per l’azione”, allo scopo di avere un quadro (il più possibile) preciso e aggiornato della situazione concreta nella quale si interviene come soggettività organizzata.

I dati italiani

L’Italia è passata da una popolazione di circa 20.000.000 di abitanti nel 1900 ad una di circa 50.000.000 mezzo secolo più tardi. Il picco è stato raggiunto nel 2014, quando eravamo 60.345.000.

Quest’ultimo dato però fu reso possibile solo grazie alle varie ondate migratorie che dagli anni ’90 hanno interessato il nostro Paese: se infatti guardiamo l’andamento del saldo naturale (cioè la differenza tra il numero dei nati e il numero dei deceduti), si nota che quest’ultimo è negativo dal 1993, cioè da trent’anni.

Secondo i dati del Report Indicatori Demografici, pubblicato dall’Istat nell’aprile 2022 e che si riferisce all’anno 2021[1], la popolazione residente ammonta a 58.983.000 unità.

Il numero medio di figli per donna è 1,25; con differenze di questo dato rispettivamente tra centro-nord e sud del Paese (si va in media da 1,57 figli per donna del Trentino – Alto Adige a 0,99 della Sardegna).

Mediamente, in Italia, l’età del (primo) parto è a 32,4 anni. Rispetto agli anni passati, si registra una tendenza a rinviare sempre più in avanti la decisione di avere figli.

L’età media della popolazione è 46,2 anni (era 45,9 nel 2020).

Gli/le over-65 si attestano su 14.046.000 unità e rappresentano il 23,8% del totale della popolazione. Gli/le under-15 si attestano su 7.490.800 unità e rappresentano il 12,7% della popolazione complessiva. Infine gli “individui in età attiva” (dai 15 ai 64 anni) ammontano a 37.446.200 unità e rappresentano il 63,5% sul totale. La percentuale degli over-65 risulta in progressiva crescita ( + 0,3% rispetto all’anno precedente) mentre gli under-15 risultano in diminuzione ( – 0,2 % rispetto all’anno precedente).

L’Indice di vecchiaia (il rapporto percentuale tra il numero degli ultrasessantacinquenni ed il numero dei giovani fino a 14 anni e 11 mesi) mostra che ci sono 182,6 anziani ogni 100 giovani. Nel 2018, erano 168,7 su 100: un dato che risultava superiore solo in Giappone. Eravamo quindi “il secondo paese più vecchio del Pianeta”[2].


(Piramide di popolazione dell’Italia – 2021)


(Andamento nascite e numero medio di figli per donna per cittadinanza della madre – 2018[3])

L’aspettativa di vita alla nascita si attesta mediamente sugli 82,4 anni (80,1 per i maschi e 84,7 per le femmine), con però disparità importanti a livello regionale: i dati ci dicono che al Sud e nelle Isole si muore di più e prima.

Infine, un aspetto “curioso” emerge: i 2/3 anni di pandemia da Covid-19 hanno fatto registrare un aumento esponenziale dei decessi (praticamente raddoppiati rispetto alle cifre registrate nel 2019) riguardanti soprattutto la fascia d’età over-65. Neanche questo eccesso di mortalità fra gli anziani ha tuttavia, come abbiamo visto dal Report, frenato l’invecchiamento complessivo della popolazione italiana.

Il saldo migratorio, pur tornato in positivo (più persone che dall’estero si stabilizzano entro i nostri confini rispetto a quelle che emigrano), si caratterizza per numeri molto al di sotto rispetto al periodo prepandemico.

I dati a livello internazionale

Verso la fine del XVIII secolo, agli inizi della rivoluzione industriale, gli abitanti sulla Terra erano circa 750.000.000. Poi, tra 1800 e 1927, vi è stato un incremento che ci ha portati ad essere 2.000.000.000. In soli 47 anni, quindi nel 1974, raddoppiamo.

Al principio del nuovo millennio siamo 6.100.000.000, mentre, secondo il rapporto dell’O.N.U. sulla popolazione mondiale[4], il 15 novembre del corrente anno (2022) sfonderemo l’ormai vicinissimo traguardo degli 8.000.000.000 di abitanti. Centinaia di migliaia di anni sono occorsi affinché la popolazione toccasse il miliardo, poi in due secoli è cresciuta di sette volte.

Gran parte delle analisi demografiche dei più importanti istituti di statistica e centri di ricerca a livello mondiale stima che alla fine del secolo sul Pianeta brulicheranno 10,4 miliardi di individui. Negli ultimi anni tuttavia numerosi sono stati gli studi che hanno messo in dubbio questa stima e che sostengono che vada rivista al ribasso. Plausibile? Il dibattito infuria e le prese di posizione di numerosi illustri ricercatori divergono.

Un punto di vista interessante lo offre la statunitense Stephanie H. Murray, public policy researcher e giornalista, che in un recente articolo definisce quello del prossimo secolo un “grande mistero demografico”[5].

Secondo la studiosa, le considerevoli discrepanze tra le diverse analisi sulle previsioni a lungo termine riflettono una reale impredittibilità. Nuove convinzioni culturali (rapida espansione dell’educazione femminile riguardo alla contraccezione) ma soprattutto le innumerevoli incognite conseguenti all’ormai evidente “global climate change” sono gli elementi più incisivi sullo sviluppo delle popolazioni e che vanno a mettere in dubbio le previsioni in questo campo.

Se il Mondo potrebbe essere meno popolato di quanto si calcola, molto probabilmente la sua popolazione sarà più anziana.

Il punto è che già ora in due terzi del mondo si registra un tasso medio di fecondità che permette a mala pena il livello di sostituzione, come mostra la mappa qui sotto.


(Infografica numero medio di figli per donna nel mondo – 2021)

È nei Paesi “sviluppati”, cioè a capitalismo maturo, ma anche in Paesi ancora definiti “in via di “sviluppo” (il Brasile, ad esempio), in cui la “frenata” è pesante e ormai decennale. A guidare invece l’incremento saranno Niger, Uganda, Ciad, Angola, Mali, Congo, Egitto, Etiopia, India, Pakistan, Filippine e Tanzania, dove si dovrebbe concentrare, secondo alcuni analisti, la metà dell’aumento previsto della popolazione mondiale nei prossimi decenni.

Riproduzione biologica in relazione al modo di produzione

La specie di cui siamo i discendenti, l’Homo Sapiens, ha la sua origine circa 2-300 mila anni fa. Siamo animali particolari: governati dalla dialettica tra istinti (informazione genetica) e conoscenza sociale (informazione extragenetica, frutto della nostra, collettiva, necessità di soddisfare i nostri bisogni materiali con modalità per noi via via sempre più agevoli e proficue).

Il nostro cervello, nella sua lunghissima evoluzione, è la “sede” di questa dialettica, che si concreta materialmente in processi biochimici molto complessi, il cui funzionamento ci è noto ancora solo in parte.

La riproduzione oggi, in quanto aspetto dell’umano, è parte di questa dialettica: istinto (alla perpetuazione, attraverso la prole, di noi stessi, del nostro clan familiare, della nostra specie) che si scontra con la conoscenza (della realtà materiale di cui facciamo parte con tutte le sue implicazioni).

Per Marx:
«La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e per quale scopo.

Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anch’esso una “forza produttiva”; ne deriva che la quantità delle forze produttive accessibile agli uomini condiziona la situazione sociale e che dunque la “storia dell’umanità” deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e dello scambio. [...]

Appare già dunque, fin dall’origine, un legame materiale fra gli uomini, il quale è condizionato dai bisogni e dal modo della produzione ed è antico quanto gli uomini; un legame che assume sempre nuove forme e dunque presenta una “storia” [...]».[6]
Nella società pre-capitalistica a predominanza di lavoro agricolo, il bambino, dopo pochissimi anni dalla nascita, cominciava ad essere attivo per la famiglia: partecipando ai processi di coltura o alla raccolta dei frutti, pascolando il bestiame, portando la legna a casa.

Spesso moriva giovane, giovanissimo. Se sopravviveva, era una fortuna per la famiglia: le avrebbe portato ricchezza col lavoro delle sue braccia o, quanto meno, le avrebbe garantito la possibilità di sfamarsi.

La riproduzione, quindi i figli, quindi la forza-lavoro era l’elemento di ricchezza della famiglia.

Se la famiglia non era in grado di fare figli sarebbe subito caduta in miseria. La famiglia contadina allargata, in cui le generazioni convivevano all’interno di clan spesso molto estesi, era l’unità economica di base, non l’individuo. La produzione agricola, la base di questa società.

Poi la borghesia, dopo secoli di lotte, vince ed impone il modo di produzione capitalistico. La rivoluzione industriale, la fabbrica, cambia uno scenario che si era riprodotto quasi uguale, per secoli e secoli, di generazione in generazione. I contadini, espropriati spesso delle terre comuni, ridotti alla fame, arrivano numerosi ad affollare le città, che diventano metropoli.

Quella che si portano dietro è la loro conoscenza sociale, la loro visione del mondo, i loro modelli culturali (frutto di una storicamente determinata struttura produttiva): i figli come risorsa, come elemento di sperata ricchezza. E così i figli, ancora bambini, finiscono nella grande fabbrica capitalista.

E questi figli, conservando quei modelli culturali e religiosi che hanno “ereditato”, talvolta riescono a sopravvivere e mettono al mondo, a loro volta, un gran numero di individui.

Nelle prime società capitalistiche, quindi, la forma della famiglia era ancora simile a quella della società contadina: famiglie numerose, che vivevano in stanze sovraffollate cercando di campare dei loro miseri salari, con i bambini che cercavano di rendersi utili già a tre o quattro anni. Si è sviluppato così il primo proletariato industriale.

Da allora ovviamente moltissimo è mutato sotto tutti i punti di vista. Il modo di produzione capitalistico, pur rimanendo uguali le sue leggi di fondo, ha subito enormi trasformazioni e rivoluzioni. E di conseguenza anche la famiglia.

Perché si è lentamente passati dalla famiglia numerosa al modello dei due figli e adesso a quello del figlio unico?

Perché i proletari non hanno continuato a fare figli, unica loro fonte di ricchezza?

Forse perché i figli hanno smesso di essere una ricchezza?

Forse che la produzione capitalistica ha richiesto forza-lavoro formata, capace di usare le macchine o di sviluppare sempre più sofisticate innovazioni tecnologiche, e la famiglia si è trovata a sopportare un costo prolungato per fornire questa forza-lavoro (tra gli altri, pagare gli studi)?

Forse che i capitalisti, mediante lo sviluppo tecnologico e la progressiva automazione della produzione, non necessitano più di grandi quantità di forza-lavoro?

Forse che la produzione capitalistica non richiede più il lavoro alla famiglia (famiglia come unità produttiva, come avveniva al tempo della predominanza del lavoro agricolo) ma all’individuo, che quindi agisce per sia per gli interessi di colui al quale vende la propria forza-lavoro sia per i propri interessi e non più per gli interessi di chi gli aveva permesso, sfamandolo e allevandolo, di diventare “produttivo” (cioè la sua stessa famiglia)?

La contraddizione che agisce fra chi riproduce (i genitori) e chi si appropria della ricchezza generata dalla forza-lavoro (i capitalisti e il loro Sistema) ha forse come conseguenza la fine della riproduzione?

Per formare gli individui ad essere produttivi nel sistema capitalistico; il costo dei figli, nella società contemporanea, si avvicina a quello di un mutuo. Il capitalismo ha bisogno di tecnici o di laureati, ma chiede ai genitori o all’individuo stesso di farsi sempre più carico del lungo processo formativo generando un cortocircuito: i genitori sono costretti alla povertà per formare questa forza-lavoro, devono limitare il numero dei figli a seconda della possibilità di “mantenerli” fino all’età adulta ed ecco quindi la drastica diminuzione della riproduzione biologica.

Ma allora perché si fanno figli? Mancando la base materiale (l’interesse materiale da parte della famiglia di fare i figli), il figlio diventa importante solo come momento di realizzazione di due individui (inoltre, ricordiamocelo, agiscono in noi gli istinti).

Siamo ben lontani dal periodo (nella società pre-capitalistica costituita da grandi masse impegnate nella produzione agricola) in cui la coppia “doveva” far figli; “doveva”, se voleva sopravvivere, in primis generare “le braccia da lavoro” per garantire alla famiglia e, più in generale, alla Società i prodotti della terra, quindi la possibilità di sfamarsi; ed, in secundis, la possibilità per i proprietari di quella terra di vendere/commerciare tali prodotti.

La religione, in quanto fattore sovrastrutturale, agiva in questo senso – in particolare sulla donna – imponendo di “adempiere ai doveri coniugali”, di procreare.

Sembra quindi abbastanza ragionevole affermare che la parabola osservabile, dall’economia pre-capitalistica all’economia a capitalismo maturo, porta a una modificazione profonda della famiglia e a una tendenziale disgregazione delle reti parentali[7].

La riproduzione biologica è fortemente condizionata dai cambiamenti generati dal e nel modo di produzione, che il Capitale fa evolvere per continuare a valorizzarsi.

All’interno di questa parabola si individuano due eccezioni: la famiglia si perpetua, consentendo almeno di raggiungere il livello di sostituzione (una coppia che genera due figli), quando è ricca o quando vive in Stati o regioni con un articolato e robusto welfare state, in particolare per quanto riguarda le politiche di sostegno alla natalità, ai servizi all’infanzia e di conciliazione lavoro/famiglia (su questo però i dati non sono univoci[8]).

La famiglia della media e alta borghesia, statisticamente, mette al mondo due/tre figli. Oltre che avere le risorse finanziarie per garantire alla prole salute e istruzione, essa possiede anche un patrimonio accumulato e delle attività economiche che richiedono una discendenza a cui trasferirle, così da perpetuare la ricchezza della famiglia.

Queste due eccezioni non bastano tuttavia ad invertire la tendenza generale alla diminuzione del tasso di natalità e quindi all’invecchiamento della popolazione.

Interrogativi e considerazioni

Se, come abbiamo visto, una previsione a lungo termine non è possibile, sul breve periodo è invece possibile individuare delle tendenze, che molto schematicamente e sinteticamente possiamo così delineare: i Paesi a capitalismo avanzato mostrano un progressivo invecchiamento delle proprie popolazioni accompagnato da una diminuzione quantitativa del peso delle fasce giovanili.

In poche parole, tanti vecchi e pochi giovani; simbolicamente, una piramide demografica “ribaltata” rispetto a quella delle società pre-capitalistiche.

I Paesi in via di sviluppo vivono una dinamica demografica simile, seppur meno radicale. I Paesi “sottosviluppati”, invece, presentano una situazione da società pre-capitalistica: bassa aspettativa di vita alla nascita (si muore relativamente presto), alta mortalità (sia infantile che non), alto tasso di fecondità (quindi un elevato numero medio di figli per donna). Qui la piramide demografica non è ribaltata e la popolazione in età giovanile può arrivare fino al 60-70% del totale (è il caso del Niger, ad esempio).

A fronte di tutto ciò, i seguenti interrogativi, relativi al nostro contesto nazionale.

Il declino demografico compartecipa, assieme ad altri importanti fattori noti, a produrre la passività della classe lavoratrice di fronte alla controffensiva del Capitale degli ultimi trent’anni e più? Il minor peso quantitativo delle fasce giovanili nella Società (rispetto, ad esempio, alla fase storica che va dai ’50 ai ’70 del Novecento italiano) ha contribuito alla diminuzione della attivazione e della conflittualità di classe dal basso?

Rispetto a questi due interrogativi, mi permetto alcune brevi considerazioni (che so essere impressionistiche e troppo generiche): sotto la pressione della lotta di classe sia internazionale sia sviluppatasi all’interno dei nostri confini, la classe lavoratrice italiana aveva strappato e raggiunto livelli notevoli di “benessere economico” sia in termini di salario (diretto, indiretto e differito) sia di proprietà (sappiamo, tra le altre cose, che circa l’80% degli italiani vive attualmente in una casa di proprietà).

Bene, questa ricchezza privata accumulata (mobiliare e immobiliare) si “scarica”, in progressione geometrica, dai quattro nonni (i due materni e i due paterni), passando per la coppia dei genitori fino al giovane figlio unico di oggi.

Quest’ultimo ha avuto e in parte ha ancora, quindi, una base materiale che lo induce a trovare altre vie per sopravvivere nella società, senza protestare e lottare, nonostante la precarietà caratterizzi ormai ogni aspetto della sua esistenza.

In riferimento a questo (alla rendita quindi), si è parlato spesso, nella pubblicistica, della società italiana come di una “società immobiliare”. La quale genera... immobilità[9]. Gli esclusi da questa dinamica (parte del proletariato nativo, ma soprattutto quello immigrato) sono stati costretti a “sorreggerla”, svenandosi in affitti, rate, debiti.

Le contraddizioni sistemiche si fanno sempre più esplosive, anche nel nostro Paese, e ciò potrebbe portare presto ad un incremento notevole della conflittualità sociale. Dobbiamo ragionare sui tempi brevi, mentre le dinamiche demografiche si dispiegano su tempi lunghi, che non ci è possibile prevedere. Tuttavia la tendenza al declino demografico è accertata e non si invertirà certo nei prossimi anni. È lecito quindi cercare di capire come operare nel modo più proficuo possibile, in quanto soggettività politica organizzata, all’interno di una società che presenta tale tendenza. Ed è lecito cercare di immaginare quali problemi interesseranno sempre più una società (al cui interno stiamo anche noi e in cui operiamo) che sarà “gravata” da una massa crescente di anziani, con tutto ciò che questo comporterà. Sempre più persone “inattive”, fuori dal ciclo produttivo, e sempre meno “attivi”, in età di studio o di lavoro.

Alla luce del quadro presentato, l’investimento politico da parte dell’Organizzazione sulla fasce giovanili diventa più che strategico: prioritario e fondamentale. Sui giovani, sul loro futuro ancora tutto da vivere precipiteranno le nefaste conseguenze di questo modello economico fallimentare. Ed essi sentono questo in maniera più forte che non le fasce di popolazione di età superiore. Sappiamo che in tutte le Rivoluzioni passate, vittoriose e non, del movimento comunista internazionale, il ruolo della gioventù è stato essenziale, per energia, capacità di sopportazione, determinazione, per il fatto, banalmente, di avere meno da perdere rispetto a chi, più anziano, era riuscito tra tanti sacrifici a ritagliarsi uno spazietto (un lavoro e una famiglia?) nella società. Se quindi il peso quantitativo delle fasce giovanili diminuisce, la battaglia per la “conquista” di queste ultime, tra Noi e il nemico di classe, diventa determinante.

Note

1) https://www.istat.it/it/files//2022/04/Report-Indicatori-Demografici_2021.pdf

2) https://tg24.sky.it/cronaca/2018/05/16/istat-italia-paese-vecchio

3) https://www.istat.it/storage/rapporto-annuale/2018/Rapportoannuale2018.pdf

4) https://www.onuitalia.com/2022/07/11/popolazione-5/

5) https://www.theatlantic.com/family/archive/2022/02/global-population-forecastdisagreement/621243/

6) Un estratto da K. Marx, L’Ideologia tedesca; contenuto in K. Marx, F. Engels, La concezione materialistica della storia, Editori Riuniti, 2016

7) A riguardo, l’ultimissimo rapporto annuale dell’Istat è illuminante (qui una sintesi).

8) Nell’articolo qui sopra indicato, si tratta, tra gli altri, il caso dei paesi scandinavi: "[…] il numero di figli per donna risulta in calo anche nella Penisola Scandinava, con la parziale eccezione della Danimarca, quindi in Paesi dove non solo la crisi economica si è rivelata meno pesante che nel resto d’Europa (Islanda esclusa), ma soprattutto dove il welfare è da sempre all’avanguardia nel campo delle politiche a sostegno alle famiglie e alla riconciliazione lavoro-famiglia. Nel 2017 in Finlandia e Norvegia, i due Paesi considerati più felici del mondo, il tasso di fecondità totale è scivolato a livelli che non si vedevano dai primi anni Sessanta del secolo scorso, quando quei due Stati erano molto meno ricchi di adesso. […] la recente crisi economica ha avuto un impatto negativo sui tassi di fecondità non solo attraverso l’aumento della disoccupazione, la precarietà dei contratti e l’abbassamento dei redditi, ma anche attraverso il crescere della sfiducia dei consumatori e dell’incertezza economica – spiegano i demografi su Neodemos.info. Le (seppur minime) restrizioni al welfare applicate nei Paesi nordici in risposta alla crisi, sommate alla percezione di incertezza economica proveniente da altri Paesi europei, i cui destini sono sempre più legati tra loro, hanno generato insicurezza anche in Paesi dove la crisi ha avuto effetti concreti marginali. […] Nei Paesi dove i Governi non hanno contrastato l’incertezza sul futuro attraverso nuovi incentivi, concreti e di lungo periodo, l’investimento delle famiglie nella procreazione è visto insomma come troppo rischioso. Scandinavia compresa".

9) Mi riferisco qui alla cosiddetta “classe media” ma anche a parte considerevole dei settori popolari.

Fonte

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