di Eliana Riva
Dal terminal di Port-au-prince alle strade ci è voluto poco. Le manifestazioni contro l’aumento del carburante, la crisi ormai endemica e l’irresolutezza politica si sono trasformate in una babele. Le richieste dei manifestanti sono diventate le pretese delle bande armate che con la forza delle armi si prendono ciò che vogliono e distribuiscono il resto a proprio piacimento. Molte delle persone che presidiano le strade, sequestrano i camion che trasportano carburante e saccheggiano i convogli di aiuti umanitari, fino a qualche settimana fa erano semplici haitiani poveri e affamati che hanno visto nella violenza la più probabile possibilità di sopravvivenza. Ma le azioni violente hanno causato il caos. L’occupazione del porto ha impedito l’arrivo di carburante, il cibo non può raggiungere molte zone del paese che rimangono senza alimenti e senza acqua sicura.
Le scuole sono chiuse e anche gli ospedali stanno chiudendo poco a poco. Non è sicuro camminare per strada, i rapimenti sono all’ordine del giorno, le condizioni igieniche peggiorano diventando terreno sempre più fertile per il diffondersi del colera. Ma non è più possibile tracciare i contagi, curare i malati e contare i morti.
La politica, totalmente impotente, non è riuscita a partorire altro che un appello di aiuto, all’ONU, agli altri Stati, a chiunque possa. D’altro canto, il presidente e primo ministro ad interim Ariel Henry, neanche due settimane prima che la situazione esplodesse, aveva dichiarato all’ONU che era tutto sotto controllo. Doveva essere lui il primo ministro per nomina del presidente haitiano Jovenel Moïse prima che quest’ultimo venisse ucciso, il 7 luglio 2021. Da allora (ma lo era anche prima) la situazione politica è rimasta instabile e disgregata.
Manifestazioni più o meno pacifiche si sono tenute, nonostante le condizioni, per chiedere la fine della violenza delle bande e della speculazione politica ed economica sul prezzo di vendita dei carburanti. Ma le forze di sicurezza hanno spesso risposto con violenza ai presidi. Non riuscendo (non potendo o non avendone la forza) a contrastare le bande armate, fenomeno certo non nuovo ad Haiti, il governo ha scelto spesso la linea morbida, l’assecondamento, la trattativa. Ed oggi chiama l’aiuto militare internazionale, richiesta sottoscritta e rilanciata dal segretario generale dell’ONU, António Guterres.
L’intervento straniero è visto da molti come un possibile sollievo ma dai cittadini, passando per i gruppi politici locali fino ai rappresentanti della chiesa cattolica, in molti mostrano di temere in parte o del tutto le conseguenze di un intervento straniero. Anche chi, dall’interno, lo invoca, chiede delle garanzie e pone delle condizioni. Che sia solo per stabilire l’ordine e per lasciare il popolo haitiano libero di decidere, che sia per consentire agli aiuti umanitari di giungere a destinazione, che non rappresenti una nuova, pesante e strascicata ingerenza straniera. C’è chi si chiede “intervento umanitario o intervento militare?”
Gli Stati Uniti il 12 ottobre hanno minacciato una stretta sul rilascio dei visti per coloro che, funzionari governativi, militari, amministrativi o semplici cittadini, hanno appoggiato le bande armate e facilitato il dilagare della violenza. Gli USA promettono anche aiuti umanitari, una presenza militare per formare la polizia haitiana sulle azioni di repressione dei violenti armati. Missione impossibile dati i fatti, a meno che tra le fila delle forze di sicurezza haitiane non vengano introdotti, in maniera informale, centinaia di militari statunitensi.
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