Il governo Meloni si appresta a varare in questi giorni l’annunciata riforma delle pensioni. Nuovo governo, ennesima riforma, stessa identica filosofia di intervento: risparmi, risparmi e ancora risparmi, sulla pelle di lavoratori e pensionati. Ecco pronto e incartato, giusto in tempo per il Natale, l’ennesimo pacchetto di austerità pensionistica.
Sembrano lontani i ricordi di quella destra che, per qualche anno, all’opposizione, fingeva di strepitare contro la riforma Fornero. Del resto, è noto come furono gli stessi parlamentari di Fratelli d’Italia (all’epoca facenti parte del fu Popolo della Libertà) a votare allineati in parlamento quella terribile legge nel non così remoto 2011. Anche alla Lega di Salvini evidentemente dei pensionati italiani importa vagamente solo in campagna elettorale.
Oggi i partiti che costituiscono la compagine governativa si apprestano a votare compatti per una riforma che è persino peggiore di quel che si poteva immaginare solo un paio di settimane fa.
Vediamone i pilastri fondamentali.
Il provvedimento più odioso riguarda sicuramente il taglio, brutale e impietoso, alle percentuali previste per l’indicizzazione delle pensioni all’inflazione per l’anno 2023.
Va premesso che il 2022 è stato l’anno in cui dopo anni di tagli vessatori alla piena indicizzazione delle pensioni all’inflazione si era finalmente ripristinato un meccanismo di perequazione ad alta copertura: 100% dell’indicizzazione per i trattamenti fino a 4 volte il trattamento minimo Inps (circa 525 euro); 90% per quelli superiori a 4 volte e fino a 5 volte il minimo; 75% sulle fasce di importo superiori a 5 volte il minimo. Si è trattato di un ritorno allo schema vigente fino ai primi anni 2000 e poi messo continuamente in discussione dalle politiche di saccheggio delle risorse pensionistiche promosse dai governi di ogni colore.
Giova ricordare che i redditi pensionistici, essendo redditi fissi non soggetti a contrattazione e dunque non passibili di aggiornamenti e revisioni nel tempo, senza un’adeguata indicizzazione alla dinamica dei prezzi subiscono un’irrecuperabile perdita di potere d’acquisto di anno in anno.
Cosa succede, infatti, se l’indicizzazione non è piena? Spieghiamolo con un esempio. Con una pensione di 1000 euro, oggi potrò comprare una determinata quantità di beni. Se i prezzi di questi beni crescono, in un anno, del 10%, l’anno prossimo, per comprare la stessa quantità di beni, serviranno 1100 euro. Vuol dire che se la mia pensione resta ferma a 1000 euro, non potrò permettermi gli stessi beni. Anche un’indicizzazione incompleta (dell’80%, ad esempio, invece del 100%) porterà a una riduzione del potere d’acquisto. Un’indicizzazione piena evita proprio questo: data l’inflazione, la pensione cresce in misura sufficiente a conservare il mio potere d’acquisto.
Nel 2022, come noto, per le dinamiche dirette e indirette legate ai rincari energetici si è avuto un tasso di inflazione molto alto che non si riscontrava da tre decenni nel nostro paese. Mai come il prossimo anno, pertanto, l’indicizzazione alla dinamica dei prezzi sarà così cruciale per difendere il potere d’acquisto delle già basse pensioni italiane. Il ministro Giorgetti ha appena firmato il decreto che fissa al 7,3% la percentuale di inflazione usata come riferimento per la rivalutazione che verrà applicata da gennaio 2023.
Evidentemente il governo Meloni, dato l’elevato livello di spesa che una simile rivalutazione implica, ha fiutato subito “l’affare” e ha voluto cogliere l’occasione per spogliare il bottino del denaro destinato a preservare il valore reale delle pensioni ridisegnando in modo drastico lo schema delle percentuali di indicizzazione.
La rivalutazione sarà piena per le pensioni fino a quattro volte il minimo Inps (circa 2.100 euro). Oltre questa soglia scattano i tagli, con una percentuale di indicizzazione decrescente al crescere dell’importo pensionistico: 80% per gli assegni compresi tra quattro e cinque volte il minimo, del 55% per quelli tra cinque e sei volte il minimo, del 50% tra sei e otto volte il minimo, del 40% tra otto e dieci volte il minimo e del 35% per le pensioni superiori a 10 volte il minimo (circa 5.250 euro). Solo per i trattamenti al minimo (circa 525 euro) vi sarà invece con ogni probabilità una rivalutazione maggiorata (superiore al 100%).
La penalizzazione per chi ha pensioni lorde soltanto superiori a 2100 euro (circa 1550 euro netti) è quindi crescente e punitiva al crescere del reddito. Per chi ha una pensione che varia dai 1550 ai 1850 euro netti si passa da un’indicizzazione del 90% ad una dell’80%. Per pensioni comprese tra i 1850 e i 2300 euro (di certo non da ricchi) la scure dei tagli porta l’indicizzazione dal 75 al 55%. Andando poi più in alto su pensioni oltre i 3000 euro netti il taglio porta la perequazione soltanto al 40% e addirittura al 35% per quelle ancora più alte contro il 75% dello schema precedente. Si può facilmente immaginare la gravità di una simile misura in un anno in cui si prevede un tasso di rivalutazione del 7,3%. Si tratta di un attacco frontale e sfrontato alle condizioni di vita di milioni di pensionati usati, ancora una volta, come agnello sacrificale dell’austerità.
Qualcuno potrebbe pensare che si tratti di tagli che colpiscono soltanto le super-pensioni, ma non è così. Una pensione lorda di 2300 euro, infatti, corrisponde a un netto inferiore a 1800 euro. Una pensione buona, vista la situazione tragica nella quale versano tanti pensionati, ma che comunque rappresenta il minimo dovuto a chi ha lavorato per oltre 40 anni. Non si tratta, dunque, di un intervento volto a ristabilire una presunta giustizia nel sistema pensionistico, ma dell’ennesimo regalo ai falchi dell’austerità.
Purtroppo, le ricette contenute nel pacchetto pensionistico non finiscono qui.
Sul fronte dell’età pensionabile, nell’intento di evitare lo scalone Fornero, bocciata prima quota 41, giudicata troppo costosa dai guardiani dell’austerità, e poi accantonata opzione uomo, il governo punta su quota 103. Si tratta del gradino al di sopra, dunque peggiorativo, all’appena dismessa quota 102, varata dal governo Draghi. Quota 103 prevederà un’età minima di 62 anni unita ad un’anzianità contributiva minima di 41 anni per accedere alla pensione. Una sorta di quota 41 in versione drasticamente più rigida in quanto porta con sé anche il requisito anagrafico minimo dei 62 anni.
I potenziali beneficiari della misura dovrebbero aggirarsi, secondo i calcoli del governo, attorno alle 50.000 persone, un numero maggiore rispetto a quota 102 per via di un requisito anagrafico più basso (per quota 102 la combinazione era 64 anni + 38 di contributi). La platea effettiva sarà naturalmente ben più esigua considerando che la misura contiene, come del resto quota 100 e quota 102, una riduzione implicita dell’assegno pensionistico dovuta al meccanismo contributivo sia per la diminuzione dell’ammontare di contributi versati sia per l’aumento di anni di vita media attesa sui cui occorre spalmare il capitale accumulato.
Da notare, inoltre, come il requisito contributivo minimo di 41 anni di per sé rappresenti una flessibilità davvero minima rispetto allo stato dell’arte tenuto conto del fatto che secondo le regole attuali si potrebbe comunque accedere alla pensione senza alcun requisito anagrafico a 41 anni e 10 mesi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini. Se vi accostiamo anche la soglia minima anagrafica di 62 anni è evidente come si stia parlando di una misura davvero minimalista rispetto all’annoso tema della rigidità in uscita dal mondo del lavoro per i futuri pensionandi.
Una misura che si potrebbe definire debole e ineffettuale assume toni foschi e poi grotteschi se teniamo conto di un ulteriore elemento: il limite di 2800 euro lordi (circa 2000 euro netti) mensili che potrà avere la pensione in caso si opti per quota 103. Chi, cioè, dovesse avere una pensione eccedente tale soglia si vedrà tagliata tutta l’eccedenza fino al raggiungimento dei 67 anni di età. Una sorta di punizione per i pensionati con reddito un po’ superiore alla media priva di alcuna giustificazione che non sia la ricerca spasmodica di risparmio.
Il bottino del combinato disposto di queste modifiche al sistema pensionistico è succulento. Al punto tale che i tagli alla rivalutazione non soltanto copriranno i costi della striminzita quota 103 ma li sopravanzeranno di gran lunga. La Banca d’Italia stima, infatti, che mentre quota 103 e altre misure “espansive” costeranno circa 700 milioni nel 2023, nello stesso anno ben 3,3 miliardi saranno risparmiati grazie al taglio della rivalutazione. Si configurerà pertanto una “manovra pensionistica” in avanzo. Non un euro quindi per i pensionati italiani, ma al contrario un furto, solo nel 2023, di oltre 2,5 miliardi di euro. Cifre destinate ad aumentare negli anni a venire, visto che già per il 2024 e per il 2025 si stima che i risparmi derivanti dal taglio dell’indicizzazione saranno pari ad almeno 6,5 miliardi di euro.
Ecco il governo delle destre che strepitavano (alcune persino dopo averla votata) contro la riforma Fornero che aveva rubato il futuro ai pensionati italiani.
Un governo manifestamente antipopolare che in ostentata continuità con il governo Draghi e i precedenti governi della storia recente mostra la sua totale compatibilità con gli assetti di potere economico del capitalismo neo-liberale e con i diktat imposti da Bruxelles che esigonoo austerità, dismissione del ruolo dello Stato nell’economia e redistribuzione di reddito e ricchezza dai poveri ai ricchi.
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