L’Italia, già provata da due decenni di bassa crescita e di perduranti difficoltà economiche, dopo la pandemia si è trovata improvvisamente ad affrontare l’inflazione più alta degli ultimi quarant’anni, in assenza di una reale capacità di far crescere i redditi nominali.
Secondo il Rapporto Coop 2021 si tratta di “uno scenario drammatico soprattutto per chi già prima della pandemia faticava ad arrivare a fine mese. In questa nuova trincea quotidiana, gli italiani si stringono ai loro affetti più cari, si aggrappano alle loro priorità irrinunciabili (il cibo, la salute) e mettono a punto la loro strategia di sopravvivenza al carovita”. (https://italiani.coop)
Ed ecco ingaggiare la lotta agli sprechi, la rinuncia al superfluo, il rinvio degli acquisti più onerosi, un abbassamento selettivo della qualità dei consumi, cui deve corrispondere una ferrea programmazione delle spese e uno stile di vita più sobrio. Ma per le famiglie in maggiore difficoltà, si verifica la rinuncia anche ai beni di quotidiana necessità.
“La crescita dei prezzi sottrae margine ai redditi delle famiglie italiane, in particolare dei nuclei mono reddito e di quelli da lavoro dipendente, a causa del ritardo nel rinnovo dei contratti collettivi nazionali e della portata modesta degli adeguamenti”, si legge ancora del Rapporto Coop 2021.
Se i consumi hanno manifestato una certa tenuta, grazie alle misure di supporto economico e al risparmio precauzionale accumulato durante la pandemia, le attese non lasciano presagire un veloce rientro della spinta inflattiva, anche perché il nuovo governo sta interrompendo la prosecuzione delle politiche a tutela delle fasce più deboli della popolazione.
In particolare, la destra al governo non ha voluto prendere in considerazione che l’Italia è al di sotto della media globale per uguaglianza salariale, cui si aggiunge la crescita lenta dei salari che, sommata alla forte inflazione, è destinata ad abbassare ulteriormente il potere d’acquisto delle famiglie italiane.
L’attacco al reddito di cittadinanza, il rifiuto di varare misure per una retribuzione minima dell’ora lavorativa, il taglio esiguo del cuneo fiscale e l’aumento ridicolo delle pensioni minime sono una raffica di provvedimenti e atteggiamenti che si muovono contro il principio dell’eguaglianza, ma anche della tenuta della coesione sociale.
Mentre ISTAT certifica la conferma della crescita del prodotto interno lordo nel terzo e quarto trimestre del 2022 a +0,5%, Confcommercio dice che il dato “è molto rassicurante sulla salute del sistema Italia” (italia-informa.com).
Un’affermazione che suona come un tentativo un poco goffo di endorsement al governo Meloni, un esplicito do ut des dopo che la flat tax sembra aver premiato il ceto medio nel commercio.
Subito dopo però, Confcommercio è costretta a correre ai ripari di cotanta benevolenza, per riconoscere che si addensano molte nubi sul futuro prossimo dell’attività economica.
“La perdita di potere d’acquisto del reddito corrente è stata largamente compensata dai sostegni alle famiglie, al contrario di quella che subisce la ricchezza finanziaria liquida”, si legge nella newsletter di Italia Informa, secondo cui “ne risentiranno nella parte finale dell’anno i consumi, che sono stati, fino a settembre scorso, anche grazie all’apporto del turismo, la diga contro la recessione. Difficilmente, però, il protrarsi delle tensioni inflazionistiche non impatterà sulla spesa reale e, di conseguenza, sul Pil”. (italia-informa.com).
Allo stato dei fatti, l’opinione secondo cui “l’inflazione scende, il lavoro va, il pil regge”, come scrive anche Il Foglio, è una chimera filogovernativa.
Niente riesce a negare il rischio che la situazione non si trasformerà in stagflazione, cioè che il rapporto tra aumento dei prezzi e la diminuzione del potere d’acquisto determini una lunga e drammatica stagione di recessione.
L’ottimismo sulla tenuta dell’economia non è suffragata dai dati, che la stessa Confcommercio espone. Come sempre, pagheranno i soliti.
Nel dettaglio, su base annua, i prezzi dei beni frenano leggermente (da +17,6% a +17,5%), mentre rimangono stabili quelli dei servizi (+3,8%). Quindi si ridimensiona il differenziale inflazionistico negativo fra servizi e prezzi dei beni (da -13,8 di ottobre a -13,7 punti percentuali).
Secondo Confcommercio, “l’aumento mensile dell’indice generale va ricondotto ai prezzi dei beni energetici regolamentati di 3 punti percentuali, degli energetici non regolamentati di 2,2 punti percentuali, degli Alimentari lavorati di 1,5 punti percentuali e dei Beni non durevoli per 0,6 punti percentuali. Scende il prezzo dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona dello 0,4% e dei servizi relativi ai trasporti dello 0,2%”.
È del tutto evidente che si tratti di una triste trama di zero virgola per niente rassicurante.
Allo stesso tempo, è più che evidente che le ragioni delle lotte sociali contro il carovita, per conquistare l’aumento dei redditi e per imporre il controllo delle bollette per le fasce sociali più deboli ci sono tutte.
È un terreno di scontro politico dal basso, contro il governo della destra, contro le sue mire antidemocratiche, il suo ruolo di guardia del corpo di Confindustria, delle oligarchie finanziarie, delle piccole e grandi corporazioni economiche, un terreno sul quale l’opposizione parlamentare all’attuale governo dimostra la sua inconsistenza e autoreferenzialità, come si può constatare dalla discussione parlamentare sulla manovra finanziaria.
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