Di fronte all’inflazione italiana, le politiche monetarie restrittive sono inadeguate, le questioni chiave sono il conflitto distributivo prodotto dall’aumento dei prezzi, le possibili politiche dei redditi, gli spazi per una politica che metta al centro la difesa dei redditi reali.
Dalla seconda metà del 2021 l’economia italiana, come le altre economie occidentali, è stata colpita da un grave shock inflazionistico, partito dall’aumento dei prezzi dell’energia importata. Le tensioni che sono state messe in moto hanno effetti profondi – nel breve come nel medio periodo – sull’economia del Paese. Per comprenderne la portata e gli effetti occorre guardare ai fenomeni inflativi come processi di riaggiustamento (economico e sociale) in seguito ad uno shock dovuto all’improvviso trasferimento di reddito reale dall’interno all’estero, che si esaurisce quando l’assetto distribuivo (e produttivo) interno risulta socialmente “accettabile” nelle nuove condizioni interne e internazionali.
I termini della questione. Lo shock inflazionistico che stiamo osservando origina dall’esterno del sistema economico nazionale – è dovuto essenzialmente all’aumento dei prezzi dei beni energetici importati, e solo in seconda battuta, di quelli alimentari (i dati sull’inflazione sono presentati nell’articolo di Giuseppe Simone e Mario Pianta). Si tratta cioè di uno shock che ha inizialmente aumentato i costi di produzione delle imprese, lasciando immutato il livello dei redditi interni. Sul piano macroeconomico, l’aumento del prezzo dei beni energetici implica – a parità di energia importata – un trasferimento netto di reddito reale dai paesi che subiscono l’aumento a quelli che forniscono la materia prima; un flusso di trasferimenti che si ripete fin tanto che dura la maggiore dipendenza del paese da tali importazioni. Il sistema riacquista la stabilità monetaria quando lo scarto tra costi e prezzi monetari della produzione interna risulta economicamente “accettabile” per i principali soggetti coinvolti, un esito che per loro può essere migliore o peggiore della situazione ex-ante.
Nella situazione risultante non “tutto il resto” rimane immutato. Lo scarto in termini reali tra costi e prezzi monetari può risultare immutato rispetto alla situazione pre-shock solo se una maggiore efficienza produttiva interna (ristrutturazione organizzativa e tecnologica) compensa il contraccolpo iniziale, riducendo il costo monetario degli altri beni intermedi importati o aumentando il valore delle esportazioni rispetto alle importazioni di beni finali: in questo modo, l’onere verrebbe ritrasferito completamente all’esterno, quale effetto di una maggiore competitività estera. Tuttavia, non sembra questo il caso del nostro Paese.
Prima dell’euro, l’andamento dei cambi rifletteva le diverse evoluzioni dei prezzi nazionali e le politiche di svalutazione della lira sono state utilizzate spesso come strumento per compensare tali dinamiche e per ridefinire la posizione internazionale del Paese a seguito di processi inflazionistici; con la moneta unica europea sia la vulnerabilità dei tassi di cambio, sia la possibilità di intervento su quel fronte vengono meno.
Nella misura in cui l’onere del trasferimento di reddito reale all’estero rimane a carico dell’economia interna, la questione chiave diventa la distribuzione dei costi tra i diversi soggetti economici: i percettori di profitto, i detentori di ricchezza finanziaria, i lavoratori pubblici e privati, i salariati dell’industria e dei servizi, le partite Iva e i piccoli imprenditori, i precari con o senza sostegno pubblico. Per uscire dall’inflazione il nodo da affrontare è soprattutto politico: come si giustifica una particolare distribuzione dei costi e come viene realizzata. Un aspetto chiave è l’orientamento delle politiche fiscali, monetarie, industriali, di controllo dei prezzi e dei redditi.
Le politiche fiscali e monetarie restrittive. La tesi dominante – nelle banche centrali e nei governi – è che l’aggiustamento (la disinflazione dei prezzi monetari) possa essere realizzato con una politica economica restrittiva (monetaria e fiscale, in varie combinazioni) che indurrebbe una compressione degli altri costi monetari (il costo delle altre materie prime, dei beni e servizi intermedi, del lavoro, del capitale – interessi, profitti e sovrapprofitti). L’economia sarebbe riportata in “equilibrio” attraverso una recessione che – dietro l’apparente “neutralità” della caduta di prodotto e reddito – distribuisce i costi economici e sociali dell’aggiustamento sulla base dei rapporti di forza sul mercato delle merci e sul mercato politico. Ad esempio le imprese e i lavoratori autonomi che hanno un qualche potere di mercato possono mantenere le produzioni, aumentare i propri prezzi e beneficiare dall’inflazione; viceversa i lavoratori dipendenti e i pensionati subiscono maggiormente la caduta dell’occupazione e dei redditi reali. Il risultato esprime il compromesso politico da cui trae origine una nuova struttura redistributiva del reddito.
Adottare politiche restrittive per controllare uno shock sul lato dell’offerta con strumenti di controllo della domanda non rimuove le cause dell’inflazione monetaria, e potrebbe complicare il processo di riaggiustamento: la recessione produce incertezza sulle condizioni e tendenze dell’economia, accentuando l’instabilità. Se l’inflazione non declina – specie quando lo shock viene dall’esterno del sistema economico in oggetto – l’economia potrebbe entrare in “stagflazione”: la presenza congiunta di aumenti dei prezzi e di caduta dell’attività economica.
In Europa e negli Stati Uniti l’orientamento dominante – specie sul fronte della politica monetaria – è ora verso misure restrittive, che incontrano tuttavia non poche contraddizioni.
In Europa la politica fiscale è vincolata dalle regole dell’Unione, dalla rigidità della composizione del bilancio pubblico nazionale, dalle recenti misure di Next Generation Europe che finanziano gli investimenti del PNRR in Italia, dagli interventi introdotti nel 2022 per il sostegno ai redditi reali e alle imprese, dagli aumenti delle spese militari di fronte alla guerra in Ucraina. Una stretta nella spesa pubblica si profila difficile da realizzare sul piano economico come su quello politico, e potrebbe avere effetti devastanti. Negli Stati Uniti l’orientamento espansivo della politica fiscale è ancora maggiore, con l’espansione della spesa militare, dei finanziamenti per la transizione ambientale, di alcuni sussidi sociali.
Più netto è l’orientamento restrittivo che negli ultimi mesi ha assunto la politica monetaria negli Usa come in Europa. I tassi d’interesse sono stati aumentati più volte, in misura significativa, con conseguenze sulla finanza, sull’economia reale, sul debito pubblico che non sono ancora chiare. Il fatto è che sia la Federal Reserve Usa che la BCE si trovano ad operare in un quadro di elevata liquidità che è il risultato delle politiche monetarie fortemente espansive realizzate con il “Quantitative easing” degli ultimi anni. Una politica disinflazionistica richiederebbe un rapido riassorbimento della liquidità, che tuttavia si scontra con l’elevato indebitamento delle imprese e delle banche: il forte aumento dei tassi d’interesse, richiedendo un più alto tasso di rendimento sugli attivi finanziari, potrebbe produrre situazioni di insolvenza pericolose per la finanza e il sistema economico.
La politica monetaria dunque non sembra poter essere efficace di fronte alla natura dell’inflazione attuale, né per realizzare una disinflazione rapida, né per garantire condizioni favorevoli a una ristrutturazione produttiva che richiederebbe grandi investimenti e bassi tassi d’interesse. Di fronte all’inflazione, la strada della politica monetaria restrittiva prospetta tempi non brevi, risultati non garantiti e ulteriori fattori di incertezza.
Le politiche industriali e di controllo dei prezzi. Le pressioni inflazionistiche possono essere affrontate anche con altri strumenti più mirati sulla natura specifica dell’inflazione odierna. In primo luogo un processo di ristrutturazione produttiva (dell’organizzazione e delle tecnologie) che riduca l’intensità di utilizzo dell’energia nella produzione di beni intermedi e beni finali renderebbe l’economia meno esposta allo shock esterno dell’aumento dei prezzi. Questa prospettiva richiederebbe tuttavia una strategia di politica industriale, un coordinamento tra scelte pubbliche e decisioni delle imprese private, e una visione di lungo periodo che manca da tempo al nostro Paese. Tale politica di ristrutturazione produttiva richiederebbe nuovi investimenti e un clima espansivo che riduca l’incertezza sugli sbocchi di mercato delle nuove produzioni, una condizione che è in netto contrasto con le scelte di politica economica restrittiva: la stretta di politica monetaria peggiora le condizioni del finanziamento dei nuovi investimenti e quella della politica fiscale rende più difficili sia gli investimenti pubblici sia il sostegno pubblico agli investimenti privati.
L’aumento dei prezzi dell’energia potrebbe essere affrontato poi con misure specifiche per ridurre l’inefficienza dei mercati attraverso un controllo dei prezzi, un “price cap” europeo, una regolazione più incisiva dei mercati che limiti il potere oligopolistico delle grandi imprese, un maggior ruolo delle imprese pubbliche (le nazionalizzazioni sono tornate in Germania e Francia), interventi per ridurre gli spazi di speculazione finanziaria sui mercati internazionali del petrolio e del gas, temi questi affrontati negli articoli di Leopoldo Nascia e di Giuseppe Simone e Mario Pianta.
Le politiche dei redditi. Se le politiche restrittive e la recessione produttiva indotta non riescono a ridurre l’inflazione, o hanno effetti troppo lenti, non rimane che il controllo diretto del costo del lavoro. Le procedure adottate al riguardo costituiscono la “politica dei redditi” di un dato momento storico. La domanda diventa questa: è possibile un patto sociale nell’attuale contesto politico ed economico, strutturale e congiunturale? Con quali soggetti? E con quali forme di compromesso?
È stata da subito evidente la pressione politica per mantenere la crescita del salario al di sotto del tasso di crescita dei prezzi monetari; il confronto con le parti sociali è rimasto fermo. Il risultato è l’aprirsi di un divario crescente tra l’andamento dei prezzi e quello dei salari (si veda la figura 2 nell’articolo di Giuseppe Simone e Mario Pianta). Una nuova politica dei redditi non è un fatto solo economico. Richiede precise condizioni istituzionali su chi sono gli attori che partecipano alla definizione del compromesso politico, quali obiettivi hanno e di quale rappresentanza sociale godono per poter gestire il compromesso politico raggiunto.
Oggi non ci sono le condizioni per una politica dei redditi come quella degli anni ‘70. Manca una visione della società alternativa a quella dominante neoliberista, non ci sono forze istituzionali, politiche e sindacali che abbiano elaborato un obiettivo di questo tipo, con campagne e mobilitazioni per la difesa del mondo del lavoro e dei salari. Potrebbe invece trovare spazio la gestione di una politica dei redditi di tipo ordoliberista, o “neo-corporativa”, di carattere autoritario-conservatore: gli interlocutori istituzionali rimarrebbero formalmente quelli tradizionali (le numerose parti sociali) ma senza sostanziale incisività (con un atteggiamento, per la verità, non troppo distante dal recente passato) e con prospettive di investimenti strutturali pubblici più che altro di facciata (presumibilmente pochi ma di grande effetto). Un’impostazione coerente con il mantenimento di sostegni alle famiglie (i “bonus” elargiti caso per caso), frammentati per una realtà da frammentare, con probabili tensioni sul deficit e sul debito pubblico.
Un nuovo assetto sociale. Allargando lo sguardo oltre la realtà nazionale, è prevedibile che lo shock inflazionistico che stiamo vivendo aprirà a un diverso assetto produttivo e distributivo della società occidentale ed europea. L’uscita dalle fasi di forte inflazione si accompagna sempre, del resto, ad una ristrutturazione dell’assetto distributivo della società. Quale sarà l’esito di questo processo? Difficile dirlo. Probabilmente sarà un assetto diverso da quello dell’era Thatcher-Reagan di quarant’anni fa, ma con il rischio che, come quello, sia capace di trasformare le condizioni istituzionali della produzione capitalistica accentuando i caratteri di sviluppo più disuguale e più autoritario – e quindi illiberale – all’interno di un contesto internazionale più conflittuale.
Se questa è la prospettiva, appare oggi ancora più urgente individuare strumenti di contrasto alla frammentazione sociale e di rilancio di politiche universali: di tutela del salario, del reddito, dei servizi di welfare. È questo il principio su cui ricostruire una visione radicalmente diversa di società. Il nostro Paese ci sembra però privo, in questo momento, dei processi istituzionali – oltre che della volontà politica – necessari per raggiungere questo obiettivo.
Di fronte al ritorno dell’inflazione e alle politiche restrittive introdotte per affrontarla, l’agenda politica e sociale dovrebbe mettere al primo posto la difesa del salario reale di chi lavora e del reddito reale di chi non lavora, non trova lavoro o si trova ai margini del mercato, insieme al rafforzamento del sistema di welfare pubblico universalistico, a cominciare da istruzione e sanità. Nelle condizioni macroeconomiche e di finanza pubblica attuali, una politica di questo tipo richiederebbe una maggiore giustizia fiscale, un riequilibrio dei redditi e della ricchezza che trasferisca risorse e riduca le disuguaglianze.
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