14 luglio 1948, ore 11,30: il segretario del PCI Palmiro Togliatti, accompagnato da Nilde Jotti, esce dalla Camera dei Deputati dall’uscita secondaria che dà su Via della Missione. Un giovane vestito di blu si avvicina e spara quattro colpi di pistola, tre dei quali colpiscono Togliatti alla nuca, alla schiena e al costato. Si tratta di Antonio Pallante, un siciliano venticinquenne che dopo l’arresto dichiara di aver voluto colpire l’elemento più pericoloso della politica italiana, agente di una potenza straniera. Nella sua camera d’albergo verrà ritrovata una copia del Mein Kampf di Hitler.
Togliatti si salverà, ma nel frattempo in tutta Italia sono scoppiati violenti scontri tra polizia e manifestanti che provocheranno la morte di una trentina di persone e alcune centinaia di feriti.
A sinistra, dopo la pesante sconfitta elettorale del 18 aprile, si pensa che l’attentato faccia parte di una strategia diretta a restaurare in Italia un regime autoritario di stampo fascista. A destra la rivolta viene considerata la dimostrazione dell’esistenza di un immaginario piano insurrezionale (il cosiddetto “piano K”) con il quale i comunisti vogliono impadronirsi del potere. E da qui si scatenerà una durissima repressione che si protrarrà per tutti gli anni ’50, con arresti, denunce, licenziamenti ai danni dei militanti della sinistra e del sindacato.
Ma l’attentato è stato il gesto individuale di un fanatico o esisteva effettivamente un complotto? L’organo del PCI ”L’Unità” incaricò il giornalista Umberto Jacoviello di realizzare un’inchiesta. I sospetti erano giustificati dal clima dell’epoca: in Grecia era in corso una terribile guerra civile nella quale furono massacrati decine di migliaia di sostenitori della sinistra, mentre in Colombia, appena tre mesi prima, era stato assassinato l’esponente “progressista” Julio Eliecer Gaitán e il Paese era finito una spirale di violenza che sarebbe durata decenni.
Dall’inchiesta di Jacoviello però non emersero prove di una trama eversiva, anche se sicuramente Pallante faceva parte degli ambienti della destra neofascista, che già a tre anni dalla Liberazione si era riorganizzata ed era protagonista, insieme a servizi segreti italiani e stranieri, criminalità organizzata, logge massoniche occulte e apparati repressivi dello Stato, di quella strategia della tensione che sarebbe culminata nelle stragi degli anni ’70-’80.
Pallante, l’uomo che “aveva portato l’Italia sull’orlo di una guerra civile” scontò in tutto poco più di cinque anni di galera e non fu interdetto dai pubblici uffici. È morto nel luglio scorso alla veneranda età di quasi 99 anni, ma la notizia è circolata solo pochi giorni fa.
Repubblica lo definisce “giovane animato dall’amor di patria” e riporta che secondo il parroco che ha officiato i funerali “la Chiesa era piena”.
Negli ultimi anni, la stampa italiana aveva riscoperto il personaggio omaggiandolo di interviste celebrative. Nel 2003 Pallante aveva dichiarato sempre a Repubblica “Non sono un killer a pagamento (…) Il mio era un gesto patriottico che voleva vendicare tutti gli italiani uccisi dai partigiani nel nord. Il mio era un sentimento nazionalista, puramente italiano”. “E non si è mai pentito”, sottolinea Il Secolo d’Italia “Ho pensato che fosse la cosa giusta da fare per salvare il Paese”. All’ADN Kronos, nel 2021, aveva ribadito: “C’era in ballo la sorte della mia patria: la libertà contro la dittatura (...) Avevo davanti dei modelli, modelli che hanno illuminato tutta la mia vita e che ancora adesso mi riempiono di entusiasmo”.
Sicuramente leggendo il Mein Kampf in albergo, prima di sparare a Togliatti, il suo amore per la libertà e il suo entusiasmo per certi modelli si saranno enormemente rafforzati. E chissà che non abbia letto, in vecchiaia, pure i libri di Pansa sul “sangue dei vinti”.
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